Nel Medioevo il termine impiegato per indicare il viaggio era cammino (iter) e non definiva, come il significato odierno lascerebbe intendere, un tragitto percorso necessariamente a piedi ma comprendeva gli spostamenti a cavallo, a dorso di mulo, in carrozza, in nave e in cataletto! E la gente del Medioevo del “cammino” aveva un sacrosanto timore, anche quando viaggiava per mestiere, come gli uomini d’arme, i mercanti, i predicatori, i principi, i capitani di nave e i marinai.

Perciò le persone non desideravano lasciare il proprio luogo di nascita, a meno che non fossero costrette a emigrare, affrontando percorsi impervi, condizioni metereologiche e di viaggio sfavorevoli, tra briganti, pirati, tempeste, neve, acquazzoni di inaudita violenza, stenti, stanchezza e malattie. C’era chi, comunque, si faceva coraggio e per ragioni religiose intraprendeva il cammino per antonomasia, il pellegrinaggio, diretto verso le mete più gettonate di allora: la Terrasanta, Santiago di Compostela, Roma, quest’ultima soprattutto negli anni del “Perdono”, come la gente di allora chiamava il Giubileo.

Contribuiva non poco a esasperare la paura del viaggio il fatto che raramente si conoscessero le caratteristiche del luogo di destinazione, soprattutto se esotico, poiché le “guide”, scritte o illustrate (itineraria), erano poche e fantasiose, e ancora meno erano le persone capaci di leggerle. Tutti e tutte però sapevano che, non propriamente durante la vita, avrebbero intrapreso un viaggio verso un luogo ignoto, per certi versi, e, per altri, molto familiare: l’Aldilà.

Giudici universali

A cominciare dagli inizi del Duecento, infatti, gli affreschi dei Giudizi universali, che ornavano le controfacciate delle chiese, descrivevano sin troppo nel dettaglio le beatitudini del Paradiso, le prove del Purgatorio e soprattutto i dolori e le pene insopportabili dell’Inferno, rappresentando tra i dannati personaggi tremendamente reali, in cui ci si poteva facilmente immedesimare. Dopo aver ascoltato la messa in una lingua che comprendeva poco, chi si trovava in chiesa guadagnava l’uscita e rientrava nella quotidianità portando negli occhi e nella mente le immagini di quelle pitture di cui invece comprendeva molto bene il monito oltre a visualizzare il paesaggio celestiale o infernale che lo attendeva.

L’ultimo cammino aveva inizio sulla terra con rituali e momenti che in quella definitiva occasione mondana dovevano esprimere in maniera inequivocabile la posizione sociale e la ricchezza della persona defunta.

E per farlo non si poteva che impiegare il vero, il solo, l’unico effetto speciale del Medioevo: la luce artificiale. Difficile da produrre e da mantenere accesa, costosa, pericolosa, fenomenale strumento per esaltare gli ori in tutte le loro applicazioni, essa possedeva tutti i requisiti utili a narrare la distinzione sociale, facendo sì che alcuni più di altri brillassero agli occhi di Dio e dei concittadini. Lo slogan di questo ultimo viaggio potrebbe suonare così: “Tanta cera quanto vali”, poiché il peso della preziosa materia prima profusa nell’illuminazione rispecchiava quello rivestito dal defunto nella società.

Accendere una candela

In primo luogo, nel momento stesso in cui una persona si spegneva, consumata proprio come una candela, una candela si accendeva per indicare all’anima la via verso la Luce, cioè Dio.

Ma si potevano aggiungere altre fiamme, a seconda della dignità del defunto e del luogo che ospitava la salma. Possiamo ammirare alcuni esempi andando per musei: nella Morte della Vergine di Mantegna (1462 ca), oltre ad apprezzare la celebre vista sul Mincio dalla finestra del castello di Mantova, possiamo ammirare anche i due grandi candelabri che illuminano Maria, mentre sono decine invece i ceri che rischiarano la scena della Madonna nel sonno della morte dipinti dalla fantasia di un pittore catalano suo contemporaneo, García de Benabarre.

Decisamente meno sobria è invece la rappresentazione di Alfonso I d’Este sulla copertina del suo testamento (1534). L’anonimo artista di Ferrara inserì 64 doppieri (due lunghe candele unite) intorno al catafalco del duca e quattro su un lampadario ligneo a forma di croce.

Questa raffigurazione restituisce in maniera realistica quanto il numero di fiamme che sfavillavano intorno al feretro fosse misura del rilievo sociale e chiarisce inoltre la ragione per cui, ancora oggi, chiamiamo camera ardente questo ambiente effimero.

Il “cammino della morte”

La seconda tappa del viaggio era il momento più spettacolare poiché le vie della città divenivano lo scenario del “cammino della morte”, cioè del tragitto che la salma compiva dalla casa alla chiesa dove si sarebbe celebrato il funerale. Il numero e la qualità dei partecipanti al corteo funebre rispecchiavano il successo terreno e i legami sociali: più erano i poveri, orfani, bambini e religiosi, tutti rigorosamente muniti di cero, più significava che la persona defunta era stata munifica, caritatevole e devota.

Proprio l’aumento smodato delle spese dei privati, soprattutto per l’illuminazione, nelle celebrazioni funebri – indicativo della centralità che dal Trecento questo momento aveva assunto nella rappresentazione di sé – costrinse i governi a intervenire per ridurle. Ma nel momento stesso in cui furono introdotti limiti e divieti, si previdero delle eccezioni per i più ricchi, aumentando così il divario sociale e, al contempo, stimolando la trasgressione. Alla metà del Cinquecento, infatti, a Foligno si denunciava con riprovazione il fatto che i funerali erano talmente luminosi da essere confusi con la processione serale della festa di san Feliciano.

Però, se si pensa che quella era davvero l’ultima occasione, come dare torto a chi provava a compiere davvero in extremis la sua scalata sociale, come fece quel vescovo che predispose le sue esequie come se fosse stato cardinale? Regole che non valevano per chi si era guadagnato gloria imperitura, come il condottiero Giovanni degli Ubaldini che veva guidato i senesi alla vittoria contro i fiorentini e che, per questo, era stato ucciso, non sul campo di battaglia ma a tavola, mangiando ciliegie, «che molto li piacevano», avvelenate dagli acerrimi nemici (1390). Per commemorarlo, la città di Siena allestì un funerale «come fusse papa o ‘nperadore»: migliaia di torce e doppieri illuminarono la bara in cui il corpo dell’uomo d’arme giaceva adagiato su bianche pellicce di pance di scoiattoli russi e cuscini di broccato d’oro, e una luminara attraversava tutta la navata della chiesa. Il più clamoroso cammino della morte del Medioevo italiano fu però quello minuziosamente organizzato per sé stesso da Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano. Un cammino che, in realtà, il suo feretro non percorse mai, poiché il 20 ottobre 1402 a sfilare dal castello sino al duomo fu una bara desolatamente vuota. Il duca, deceduto ben 47 giorni prima, riposava infatti sepolto altrove.

Gian Galeazzo Visconti

Al suo funerale, però, Gian Galeazzo aveva trovato comunque il modo di esserci.

Si trattò di uno spettacolo con tempistiche e personaggi degni di una rappresentazione teatrale. Dotato di un servizio d’ordine, come uno show odierno, il corteo funebre – una marea nera coperta da migliaia di fiamme che avanzava nelle vie del centro cittadino – si apriva con i parenti e gli ambasciatori degli stati amici, e la loro guardia armata, i rappresentanti delle città del dominio e 2.000 uomini vestiti di scuro con un doppiere acceso in mano; seguivano preti e canonici del duomo, l’arcivescovo e i vescovi delle diocesi lombarde, sudditi, cittadini, religiosi e il cataletto circondato da 200 camerieri di corte, sorretto da 60 uomini scelti in base a valore militare e nobiltà, e altri 2.000 con doppieri a chiudere il corteo. Vi erano inoltre 240 cavalieri, tra cui un manipolo con compiti speciali e due con un ruolo iconico: due ghostly knights, chiamati a impersonare niente po’ po’ di meno che il principe defunto. Costoro cavalcavano i palafreni bardati con le insegne personali del duca, indossavano la sua armatura, portavano le sue armi, speroni e stendardi.

Era la prima volta che si vedeva una cosa simile in Italia.

Gli zoccoli dei due destrieri risuonarono nella cattedrale, giungendo all’altare maggiore dove la finzione predisposta dal duca aveva previsto che fosse lui stesso, tramite i cavalieri fantasma, a lasciarvi in segno di omaggio armature, armi, cavalli e i giganteschi stendardi con la vipera viscontea.

Davanti all’altare e alla bara brillava un incendio “addomesticato”, realizzato con un’impalcatura lignea coperta da migliaia di ceri che producevano un calore e una luce incredibili. La gente, stravolta dallo stupore, esclamava: «O me signor!». Nel brillare a questo modo agli occhi del popolo, Gian Galeazzo si era così reso immortale.

Senz’altro fu la luce e non il buio la cifra distintiva del Medioevo.

Beatrice Giovanna Maria Del Bo interverrà domani, domenica 22 ottobre alle 17, alla Festa del libro medievale e antico di Saluzzo presso Il Quartiere in piazza Montebello, 1

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