Adesso che la pandemia ha fermato l’industria culturale, si discute di quanto la cultura sia necessaria non solo come risorsa per l’economia ma soprattutto per la salute e il benessere della popolazione. Con la chiusura forzata di teatri e cinema, la discussione è diventata ancora più accesa.

Molti si sono opposti alle decisioni del governo ritenendole sbagliate perché penalizzano un comparto già in grande sofferenza e perché le istituzioni culturali – si è detto – devono continuare a operare anche in tempi di lockdown. Sono infatti ritenute necessarie per superare la crisi. Teatri aperti come i supermercati: i primi per nutrire l’anima, gli altri il corpo.

La discussione è giusta e legittima. Siamo in molti a pensare che la cultura sia particolarmente importante in momenti di crisi. Teatri, musei, biblioteche servono per pensare, per capire il presente a partire dal passato, per riflettere sui propri dilemmi confrontandoli con quelli degli altri, per sentirsi padroni del mondo anche quando non si controlla nemmeno la propria vita. Libri, film, dipinti, commedie, concerti ci aiutano a essere resilienti, aiutano la nostra capacità di pensiero, ci insegnano a ragionare sulla complessità della società moderna, sconfiggono il semplicismo e la disinformazione: in poche parole sono il viatico di ogni democrazia funzionante. Per questo la chiusura di teatri, cinema, spazi culturali e festival letterari ci fa tanta paura.

Un’eredità fragile

Per chi lavora in questo settore, la parola d’ordine è resistere. Ci sentiamo i paladini di un’eredità fragile e multiforme che nei secoli si è nutrita costantemente della socialità e del rapporto con il pubblico. La cultura à cosa pubblica e come ci ha insegnato Habermas, è parte integrante della nostra dimensione politica. Disintegrando il nostro diritto alla socialità, la pandemia ha inferto un colpo durissimo alla nostra capacità di fare cultura.

Si può discutere a lungo di come si potevano evitare certe misure, o rafforzarne certune o addolcirne di altre ma rimane la certezza che le pandemie, questa e altre ancora, sono nel nostro presente quanto nel nostro futuro: lo dicono gli scienziati, i cambiamenti climatici, la globalizzazione e lo dice la storia. Ora è quindi il momento per riflettere su come organizzare il nostro sapere, in modo da tenerlo vivo, dinamico, fruibile nel mondo che viviamo e che ci aspetta; il mondo della convivenza con le pandemie e i suoi postumi.

Pertanto è utile distinguere tra necessità economica dell’evento culturale pubblico (se non vendo biglietti per la mostra o per il teatro non ho introiti per continuare a operare) e la necessità dell’esperienza condivisa come momento fondante dell’azione culturale (se non interagisco con il pubblico non creo cultura). Se il problema è di ordine economico, esso è affrontabile con dei sussidi e su questo il governo sta già lavorando. Altra cosa è la rilevanza della cultura in assenza di socialità e interazione.

Incontri da remoto

Nei mesi del lockdown, l’isolamento forzato ha portato a una provvidenziale accelerazione dell’utilizzo di piattaforme di condivisione. Quando ci siamo stancati di cantare dai balconi, ci siamo organizzati per incontrarci da remoto: aperitivi tra amici in differita su Skype, pranzi domenicali con i nonni su Zoom, videochat amorose tra fidanzati. Incontrarsi da remoto non è un concetto nuovo. Prima si faceva per lettera, magari con l’aiuto di una miniatura o un disegno per ricordarsi la faccia dell’interlocutore. Ma seppure il concetto è lo stesso – sentirsi vicini, chiacchierare, scambiare opinioni quando si è fisicamente distanti – le nuove piattaforme digitali hanno reso tutto più immediato, più vero, più esperienziale.

A oggi la grande vincitrice sulla pandemia è la tecnologia digitale. Se non siamo completamente impazziti nelle nostre case è anche grazie a Zoom, Google meet, WhatsApp e Skype. Molte istituzioni culturali hanno saputo approfittare di queste tecnologie, riuscendo a essere aperte anche quando le porte del museo o della biblioteca erano chiuse. La maggior parte di questa offerta culturale è stata proposta in forma di video, registrazioni, podcast. Queste produzioni hanno diffuso contenuti ma non hanno riempito il vuoto che la mancanza di socialità infligge alla cultura. Guardarsi un video su Raffaello sul computer è come guardarsi un documentario di Rai Storia alla televisione. Bello e interessante ma non è come andare al museo con un amico. Eppure le tecnologie per creare spazi condivisi e interattivi ci sono. Se hanno imparato a usarli i nonni, anche le istituzioni culturali possono farlo.

L’esempio del gaming

Visite guidate interattive, laboratori per bambini, letture di gruppo per i più piccoli, corsi di recitazione su Zoom. Tutto questo si può fare e alcuni musei, biblioteche e teatri lo hanno già fatto. Bisogna farlo di più e meglio. Vale la pena ricordare che la creazione di uno spazio virtuale in cui persone distanti si incontrano e interagiscono è ciò che nel gaming succede da anni. Sebbene le tecnologie del gaming per i musei siano spesso viste come un abbassamento del livello culturale, occorre riconoscerne il potenziale per la creazione di spazi culturali interattivi a distanza.

Il gaming ricorre a tecnologie sofisticatissime che si possono (e devono) applicare anche a musei e teatri, nella consapevolezza che la tecnologia non detta i contenuti, bensì ne facilita l’efficacia. In questo settore, tra le maggiori istituzioni culturali del paese, le biblioteche sono un passo avanti. L’e-lending (il prestito di e-books), ha consentito la circolazione libraria anche quando le biblioteche e le librerie erano chiuse. Si è potuto continuare a leggere e studiare. Gli accessi a questi servizi hanno avuto una crescita esponenziale, segno che ce n’era bisogno. Molte biblioteche di conservazione, hanno consentito agli studiosi di continuare a fare ricerca attraverso la messa in rete di “surrogati digitali”, consentendo la consultazione pagina per pagina di documenti antichi dal proprio computer di casa.

Ma c’è di più: nuovi sistemi di pubblicazione online, offrono la possibilità di condividere liste di documenti, annotazioni di passaggi di testi, opinioni su dettagli di opere. Senza lasciare la propria scrivania, si possono intavolare discussioni con colleghi dall’altra parte del mondo come se si fosse tutti nella stessa sala di consultazione a guardare lo stesso volume. Usando questo tipo di piattaforme la Biblioteca Estense universitaria di Modena ha varato un progetto di crowdsourcing che consente a un gruppo di ricercatori di catalogare decine di frammenti di spartiti musicali, finora male o non identificati, condividendo immagini e dati da remoto. Catalogare è un’occupazione antica, basilare per il sapere; farlo in gruppo e a distanza senza muoversi da casa propria è rivoluzionario.

Non c’è dubbio che l’incontro diretto con un’opera d’arte, un manufatto antico, un monologo a teatro sia importante, necessario e ineguagliabile. Ma in parallelo la cultura continua a vivere nella dimensione online. Se dobbiamo chiudere le istituzioni per fermare il contagio, dobbiamo anche investire di più in tecnologia per creare nuovi spazi virtuali in cui la condivisione culturale sia viva, stimolante e soddisfacente. La nostra vita ormai è onlife: stiamo insieme al bar inchiodati ai nostri smartphone e si sta in gruppo chattando soli da casa. Facciamo in modo che la cultura rimanga essenziale anche quando non è dal vivo.

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