Fuori Rossi o a morte Sossi!» Lo slogan con cui nel 1974 le Brigate rosse debuttano in società rapendo il procuratore di Genova, segna gli anni Settanta, la storia d’Italia e, inevitabilmente, il settennato presidenziale di Giovanni Leone, eletto nel 1971. Il candidato (pre) destinato al Colle era Aldo Moro, in competizione con Amintore Fanfani, ma le trame correntizie gli furono ostili, anche per le simpatie tattiche delle sinistre (la sera prima dello scrutinio definitivo Enrico Berlinguer annunciò a Moro il sostegno del Pci), e i voti necessari andarono a Leone. Il quale visse il suo mandato tra la tenaglia brigatista e neofascista e la necessità istituzionale, in anni di tensione e terrorismo. Il procuratore Sossi verrà liberato e l’Italia vivrà il ricatto infame della negoziazione di ostaggi. Tragica pratica di diplomazia della paura che Leone sperimentò direttamente sul finire del mandato con il rapimento e l’omicidio di Moro. Per il quale nessuna, vera, efficace trattativa si sostanziò, mentre per Sossi si avviarono dei canali di interlocuzione, osteggiati dal procuratore Francesco Coco, per questo ucciso dai brigatisti due anni dopo.

Gli anni di piombo

La presidenza Leone è immersa negli anni di piombo, nella violenza rosso/nera, non indistinguibile e uguale a sé stessa, ma certamente similmente logorante per il paese, per decine di ragazzi uccisi per un vestito o un cinema sbagliati. Nel maggio del 1974 una bomba neofascista miete morti e feriti in piazza della Loggia, a Brescia; nell’estate successiva un ordigno esplode sul treno Italicus, nel tratto appenninico bolognese, per puro caso deflagrando appena fuori da una galleria rispetto agli intenti neofascisti. La “strategia della tensione”, inaugurata nel 1969 per generare panico e indurre il “popolo” a invocare l’uomo forte, l’avvento dei colonnelli, come in Grecia. E un tentativo effettivamente ci fu, con il tentato golpe di Junio Valerio Borghes, ex repubblichino di Salò con addentellati nella P2, un anno prima dell’insediamento di Leone.

L’Italia è divisa tra comunisti e democristiani e riproduce in sedicesimo la frattura di Jalta, tra est e ovest, tra Nato e patto di Varsavia. La penisola rappresenta il confine geopolitico, simbolico, tra i due mondi, con il partito comunista più forte dell’Europa occidentale e l’influenza, e ingerenza, americana. Di cui Berlinguer tentò di scardinare gli assiomi strategici avvicinandosi – seppur tatticamente – alla Dc che proprio con Moro si avviava – tra molte tensioni e contraddizioni – verso il compromesso storico. Il Pci virò verso l’ombrello Nato, anche a seguito del golpe contro Salvador Allende in Cile. La scelta di eleggere Leone al Quirinale sancì una virata conservatrice, e la fine del centrosinistra il cui principale promotore, Moro, fu sconfitto tra i delegati democristiani.

Il ruolo del Msi

Il Movimento sociale fu determinante per la scelta di Leone, dopo che mancò per un solo voto il quorum (503 contro 504 richiesti). Leone salì al Colle da senatore a vita (unico caso), nominato da Giuseppe Saragat nel 1967 dopo che nel 1964 aveva ritirato la sua candidatura al quattordicesimo scrutinio proprio a vantaggio del leader socialdemocratico. Un gesto di elegante risarcimento istituzionale.

Da par suo Leone nominò senatore a vita Amintore Fanfani, in una concatenazione di riconoscente gratitudine, persino stucchevole. Altri modi, altri tempi che mutavano rapidamente: dalla società di massa collettiva, alla società di massa individualizzata/individualista. La crisi energetica internazionale generata dalla guerra del Kippur nel 1973 incombe e incide sulle vite delle persone, soprattutto nelle città: «Domenica non si circola, c’è l’austerity». Forma indotta di autarchia, di stop forzato alla crescita.

Lo scandalo Lockheed

Proprio l’ambito e l’arena internazionale segneranno la seconda parte del mandato di Leone. Lo scandalo Lockheed, con l’omonima compagnia aeronautica che ammise di aver pagato tangenti a diversi politici in cambio di favori nelle commesse. Tra questi figurava “Antelope Cobbler”, che venne identificato in Leone da un libro di Camilla Cederna, dal settimanale l’Espresso e dal paradossale attacco dei Radicali a un presidente garantista. Le cattiverie miserabili di servizi deviati, le ritorsioni degli americani (in un primo tempo fu accusato Moro), sempre utili da citare all’uopo per spiegare tutto, ergo nulla.

Leone rimase incagliato nella storia, pavido forse, pusillanime meno di quanto detto, grigio, ma non oscuro. La procedura di messa in stato di accusa fu annunciata dal Pci, ma non portata a termine ché Leone si dimise in anticipo sulla fine del settennato, praticamente nel “semestre bianco” (due mesi prima che iniziasse), che tra l’altro propose di abolire con l’eliminazione della possibilità di rielezione riprendendo il messaggio di Antonio Segni alle camere. Successivamente verrà assolto, ma l’Italia non volle accorgersene e iniziò lentamente ad alimentare il qualunquismo giustizialista. Erano gli anni dello stupro a Franca Rame e di “Fratello Mitra”, il prete della teologia della liberazione che collaborò con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a catturare vari brigatisti. Durante un incontro a Pisa Leone fece il gesto delle corna, divenuto celeberrimo, verso un gruppo di studenti che gli rivolgeva qualche improperio e secondo lui anche un «a morte». L’Italia piccolo borghese e bigotta si sdegnò, mentre rese il presidente partenopeo simpatico, e certamente sobriamente ironico rispetto alla cialtroneria coatta contemporanea. Giurista di livello e amico di Enrico De Nicola, fu in predicato di divenire presidente della Repubblica nel dopo Segni, e l’anno prima giunse a palazzo Chigi, con un governo monocolore democristiano, un esecutivo “balneare”, tipicità italica che spiegarla oltralpe è cosa ardua.

Sul piano interno peserà, molto, la “vicenda Moro”, la debolezza e la tattica spacciate per fermezza, e l’impreparazione dello stato, l’assenza di piglio esterno del presidente che però lo stesso Moro non stigmatizza nelle sue lettere dalla prigionia.

Il settennato

Leone da Pomigliano d’Arco è componente dell’Assemblea costituente, e poi alla Camera fino al 1963, presidente della Camera e del Consiglio dei ministri; eletto al 23° scrutinio, un record, come la percentuale di grandi elettori che lo sostiene (51,4 per cento, minimo storico), con Dc, Psdi, Pri, Pli, e il sostegno del Msi. Nenni ne raccolse 408 (4 per cento di bianche) a segnare la distanza tra socialisti e democristiani. La maggioranza parlamentare non controllava il processo di voto ed era essa stessa attraversata da tensioni interne. Leone procedette al primo scioglimento anticipato delle camere nella storia repubblicana, nel 1972, sostanzialmente per evitare il referendum sul divorzio; la crisi di governo innescata anche da una maggioranza presidenziale differente da quella del logorato centrosinistra. E ancora nel 1976 per rispondere a mutati equilibri parlamentari e di rapporto con il governo. Abile negoziatore e diplomatico, a volte tendente al notarile. Gestì otto crisi di governo, come Pertini, tutte con successo anche grazie a una gestione extra-parlamentare, ossia a un negoziato pre-assembleare con i capi dei partiti e delle correnti Dc. Durante le consultazioni al Quirinale convocò anche i segretari dei partiti e gli ex presidenti della Repubblica, modificando e innovando la prassi, al fine di avere maggiori informazioni sulle dinamiche parlamentari e per conferire un incarico più congruo possibile. Ha nominato quattro giudici costituzionali, e nella elezione del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura il suo voto, inedito rispetto alla consuetudine, fu decisivo per la designazione di Vittorio Bachelet rispetto a Giovanni Conso.

La mattina del 16 marzo 1978 via Fani segna uno spartiacque nella storia del paese. Leone esce fiaccato da una vicenda più grande di lui, in un settennato complicato, doloroso in un’Italia che cambiava.

Era la vigilia di Natale quando il parlamento lo ha eletto. Forse per estenuazione il paese aveva il suo sesto presidente della Repubblica, con soli tredici voti in più di quelli richiesti. Il nome di Leone apparirà tra le schede solo al penultimo scrutinio, il ventiduesimo. Il sistema politico è in tensione, il centrosinistra è al tramonto e il pentapartito lontano, la solidarietà nazionale un inciampo necessario, il compromesso un’idea spezzata. La società è in fermento: referendum su divorzio, i giovani sempre attivi, e non tutti violenti, la classe politica è rigida, stanca, burocratica e grigia. A tratti reazionaria. Leone rimane nell’immaginario come un presidente oscuro, una sorta di Richard Nixon italiano, ma in realtà la storia è molto più articolata e appare oggi molto più istituzionale di quanto scritto per anni.

Con questo articolo Gianluca Passarelli, professore in Scienza politica e Politica comparata presso il dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza, inaugura una serie di approfondimenti dedicati ai presidenti della Repubblica e ai loro settenati. Una guida per capire meglio il ruolo del capo dello stato in attesa dell’elezione del successore di Sergio Mattarella

© Riproduzione riservata