Francesca Paoli vuole andare su Marte. «Il mio obiettivo è lavorare nel settore space. Sono sicura che è alla nostra portata». Spazio, ultima frontiera. Quella che la Dino Paoli, azienda di Reggio Emilia, eccellenza italiana nella produzione e fornitura di avvitatori per la Formula 1, vuole esplorare. In ogni pit-stop c’è la loro mano. Non c’è bullone che non sia smontato o montato con una delle loro creature. «In America se fornisci componenti per il motorsport sei affidabile e valido. Si deve lavorare con l’alta tecnologia, avere rapporti con i tecnopoli, fare ricerca. Il nostro obiettivo è fornire componenti per lo space, inserirci nella nicchia della nicchia». Come tutto, anche il mondo degli avvitatori è diviso in due: quelli che li producono in serie, e quelli che badano alla qualità. La Cina, per esempio, ne sforna in grande quantità. Ma poco potenti e a prezzi ultra concorrenziali. Del secondo gruppo fa parte invece la Dino Paoli. «Penso che si debba avere l’onestà di capire: tecnologicamente noi possiamo arrivare molto in alto. Con i prezzi no».

Per capire la Dino Paoli non bastano il sogno e la retorica del Made in Italy. Ci vuole di più. Bisogna tirare in ballo il tempo, i motori e le donne. L’azienda, che oggi conta 46 dipendenti, è guidata da Francesca, 46 anni, elegante, gentile. Vulcanica. Lei ride. «Sì, ho tante idee. Sono una appassionata di natura». Coraggiosa, qualche volta sfacciata. Da ragazza voleva fare l’odontotecnica. A un certo punto Dino, il padre, ha avuto bisogno di un braccio destro. «Facevo pratica in azienda. Ho fatto l’assistente commerciale, e dopo ho gestito gli acquisti. Andavo dai fornitori: volevo sapere tutto. Più tardi ho fatto corsi su corsi. La meccanica mi è sempre piaciuta. Ero una motociclista, adesso no perché ho un bimbo piccolo e le priorità sono cambiate. Ma il mio è stato un percorso naturale». A vent’anni la scambiavano per la segretaria. Meccanici, ingegneri e altre specie fantastiche: immaginate tutto il campionario del macho man. «Quando tiravo fuori il bigliettino, però, tutti sull’attenti». I suoi soci sono tre: Federico Galloni, Marco e Giorgio Magnani. Francesca non è solo Ceo (dal 2007) di un’azienda da 10 milioni di euro, è quella che tiene insieme tutto. Ed è supportata da donne & famiglia: Patrizia, la sorella, che è responsabile del personale, e le due nipoti - Elisa Del Bue e Nicole Finelli -, una responsabile della produzione e l’altra dei media partner. «Siamo in armonia. E vedere che le più giovani seguono le orme è una bella soddisfazione».

Dino Paoli fondò l’impresa nel 1968. L’officina era piccola, il lavoro moltissimo. Produceva avvitatori per smontare le gomme dei camion e per i cantieri navali. Dunque per un certo tipo di industria pesante. «Erano robusti e di qualità. E venivano prodotti qui a Reggio, in quella che oggi è definita Motor Valley. Anche questa è sempre stata una garanzia», racconta Francesca. Con la Formula 1 si accese la scintilla. Ai gran premi le scuderie usavano avvitatori prodotti negli States. Paoli andò a bussare alla porta di Enzo Ferrari. L’Ingegnere era così: sapeva riconoscere il genio e il talento. E la Ferrari, guarda un po’, finì per fare i pit-stop più veloci di chiunque altro. Era il 1975. Paoli andava ai gp, parlava con i meccanici, gli ingegneri e ovviamente i piloti. Legava con tutti. Senna si prestava a tradurgli le osservazioni: «Papà non parlava inglese. Ayrton è sempre stato gentile con lui». Per anni la Dino Paoli ha fornito avvitatori gratis alla Rossa finché non c’è stata l’idea di portare avanti insieme la ricerca e lo sviluppo. «È stato il principio, dopo ci siamo allargati al mondo del race». I motori sono dunque il cuore pulsante della Dino Paoli che oggi fornisce avvitatori per tutto il motorsport. L’azienda è florida e i progetti sono multiformi. Lo spazio, ma anche i gioielli. L’anno prossimo partirà una start-up per produrre luxury dai bulloni. L’idea a chi è venuta? «Certi bulloni hanno forme incredibili», sorride Francesca. Li disegneranno i ragazzi del liceo artistico di Reggio Emilia. Forse verrà prodotta una linea. Vedremo. Ma certo non è stato sempre tutto scontato. Nel 2008 la crisi Lehman-Brothers ha investito anche la Dino Paoli. «Papà ci ha lasciato. E poi la crisi. È stato un momento molto duro. Ma siamo stati bravi. Ci è servita, ci siamo strutturati meglio».

Pensano alla parità di genere, alla qualità dei prodotti, e alla transizione ecologica. I magazzini della Dino Paoli sono plastic free. L’azienda collabora con le università italiane (quella di Reggio e Modena) per la ricerca sui materiali. E l’espansione è totale: l’80% dei prodotti viene esportato tra America, Giappone, Sudamerica, Africa, Europa. La ripresa totale è arrivata nel 2017, quando la Dino Paoli è entrata nel mercato a stelle e strisce con la Nascar. Gli americani vivono lo sport come business, la competizione è tutto. Ma in Formula Cup avevano un grosso problema: per fare prima, i meccanici avvitavano due, tre dadi al massimo (anziché cinque, oggi c’è un monodado). I piloti non volevano correre con due bulloni soltanto. E solo chi aveva più soldi poteva permettersi strumenti all’avanguardia, veloci e di qualità (oggi c’è la parity e gli avvitatori vengono sorteggiati). La Dino Paoli è riuscita a entrare in quell’interstizio di possibilità. «Abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo. Ci hanno chiesto se fossimo in grado di creare uno strumento per fare il pit-stop in velocità e sicurezza. Abbiamo prodotto avvitatori con l’elettronica incorporata e un software per rilevare la pressione dell’avvitamento».

L’azienda italiana produce 2.500 avvitatori l’anno. Di ogni tipo: pneumatici ed elettrici. Sono prodotti estremi. Un avvitatore ad aria compressa (anche per GT o Formula 1) funziona con una pressione a 25-30 bar. Quello del gommista arriva a 6. Il prezzo? Un segreto. «Si fa ricerca sulla fluidodinamica, ci sono avvitatori meccatronici ed elettronici. Siamo in un momento di passaggio verso l’elettrico». Per la Formula 2 e la Formula 3, per esempio, la fornitura è già full electric. Un pit-stop può farti vincere o perdere una gara, per questo i team lavorano così tanto sul quell’attimo di perfezione. La velocità è solo corsa contro il tempo. Moltissimi team, infatti, hanno già i mental coach per gli addetti al cambio gomme, li aiutano a tenere la concentrazione altissima. Ma senza gli strumenti giusti niente sarebbe possibile. «Il nostro traguardo sarà produrre un elettrico che abbia le stesse prestazioni e la stessa potenza dello pneumatico». Il prodotto di punta c’è già: si chiama e-gun. Si sta parlando con la F1 per adottarlo, ma molte scelte dipendono dai cambi di regolamento. Meno di sette secondi è il tempo medio per il cambio di quattro gomme durante un pit stop nelle gare. Con l’avvitatore Paoli il tempo è sceso sotto i tre. Il record lo hanno fatto i meccanici della McLaren di Lando Norris, nell’ultimo gp in Qatar di qualche settimana fa. Un tempo di 1 secondo e 80, addirittura 2 centesimi in meno della Red Bull di Verstappen. «Andare oltre penso sia difficile, c’è un limite fisico. Un limite qualitativo», dice Francesca. Ma se vuoi andare nello spazio non sono certo i limiti che ti spaventano.

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