Dopo la fresca nomination ai Grammy Awards per Dynamite, l’en plein di premi agli Mtv Video Music Awards o agli Mtv Emas, e gli ormai tre anni fra i dieci musicisti più venduti del mondo, la band Bts ha definitivamente certificato un nuovo fenomeno mainstream: la musica k-pop.

Si tratta di un filone dell’industria musicale nato in Corea del Sud che fa discutere, entusiasmare ed arrabbiare come solo il genere trap ha saputo fare negli anni Dieci. Ma la scalata al successo di questo genere è iniziata oltre vent’anni fa, con il riverberarsi del boom economico sudcoreano sull’export di contenuti. Il k-pop è stato infatti la testa di ponte della Hallyu (“onda coreana”) che ha diffuso stili musicali, film e serie tv, brand tecnologici, campioni di e-sports e nuove forme di celebrità online. Un successo prima locale, poi asiatico e, infine, una tendenza globale.

Nel 2020 la potenza di fuoco culturale del k-pop ha però raggiunto una magnitudo straordinaria. E oggi influenza non solo musica e tv, ma persino la politica e i mercati finanziari. A metà ottobre il debutto in Borsa di Big Hit Entertainment, la casa discografica dei Bts, ha fatto schizzare le azioni oltre il doppio del prezzo di collocamento.

Molti analisti finanziari sono rimasti perplessi: il 97 per cento dei ricavi dell’azienda quotata dipende dai soli Bts, ma la vita media delle band di k-pop è di 5 o 7 anni (i Bts sono attivi da 6), e per giunta il più anziano ha 27 anni, cioè rischia di lasciare la band per i due anni di leva obbligatoria entro i 28. In Corea con il servizio militare non si scherza.

Big Hit Entertainment è dunque una bolla speculativa, alimentata da fan in versione piccoli investitori? Probabile. Se non fosse che il governo di Seul sta valutando modifiche alla legge sulla leva, proprio per evitare il boomerang di indebolire la “boy band più influente del mondo”.

E se parliamo di influenza del k-pop, non ci si può fermare ai Bts. La girl band coreana Blackpink si è aggiudicata il primo posto, agli inizi di novembre, nel report mensile di Bloomberg “Pop Star Power Ranking”, davanti a Cardi B, Justin Bieber, Drake, Ariana Grande e agli stessi Bts, che misura l’impatto delle star musicali unendo vendite di biglietti e di album, ascolti in streaming, interazioni Instagram e visualizzazioni YouTube.

Insomma, se pensate che Dua Lipa, Billie Eilish, Shawn Mendes o Snoop Dogg siano star che “contano” più delle band coreane, avete preso un granchio. La realtà dice altro: il k-pop non solo vende musica in tutto il mondo, ma è una forza culturale e sociale in grado di generare effetti politici. Durante le proteste in Thailandia contro esercito e monarchia di ottobre, guidate dagli studenti, molti si sono mobilitati grazie alla comune passione per il k-pop. Vari gruppi di fans, infatti, hanno attivato sui social raccolte fondi di decine o centinaia di migliaia di euro per finanziare l’acquisto di elmetti e visiere protettive da donare ai manifestanti, o per pagare le spese legali agli attivisti arrestati.

(Foto: Invision/AP)

Contro QAnon

Negli Stati Uniti, poi, lungo il 2020 i fans di k-pop ne hanno combinate di ogni: pro Black Lives Matter, contro Trump, contro QAnon.

Dopo la morte di George Floyd, la polizia di Dallas aveva lanciato una discussa app di sorveglianza per invitare i cittadini a segnalare disordini e illegalità. Gruppi di fans di k-pop hanno inondato la app con video dei loro idoli, mandandola in crash e costringendo la polizia a ritirarla.

E il clamoroso flop del comizio di Donald Trump a Tulsa in giugno? Congegnato da fans di k-pop, che avevano acquistato biglietti ma per lasciare sedie vuote. Il k-pop, in definitiva, pare ormai un fenomeno comparabile alle più vaste e trasversali mode culturali giovanili di sempre, dal rock negli anni Cinquanta ai videogame negli anni Ottanta.

(AP)

In Italia l’eco dei successi delle band e delle azioni dei fan sembra giungere ancora ovattata. Ma qualche segnale c’è: ne ha scritto a novembre persino Sorrisi & Canzoni TV. E nelle classifiche dei 100 libri più venduti è spuntato Tutta colpa del K-pop di Seoul Mafia (De Agostini).

Sembra una favola aspirazionale: è la storia del riscatto sociale di un ragazzo di Carnate Brianza, Marco, che dopo un’adolescenza da bullizzato corona il suo sogno diventando un influencer di k-pop e, poi, un vero e proprio idol, finendo col trasferirsi a Seul. Ma è una storia vera, in bilico tra frivolezza e consapevolezza. Come è nella natura della cultura pop coreana, e non solo.

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