Le immagini del rilascio degli ostaggi israeliani con i miliziani a volto coperto, fanno il gioco di Hamas o di Benjamin Netanyahu? Il nuovo ritratto ufficiale del presidente degli Stati Uniti, con il sopracciglio sollevato, è un manifesto politico del suo mandato? Elon Musk ha fatto il saluto fascista alla cerimonia del giuramento di Donald Trump?

Sono domande che qualcuno si è posto guardando alcune delle immagini dei più importanti fatti di cronaca degli ultimi giorni. Attorno ad esse sono nati dibattiti e commenti, nei quali ciascuno proponeva la propria interpretazione.

In molti casi vediamo come le fotografie (anche quella di Musk, per il quale disponiamo del video) sono intese come documentazione, potremmo usare anche il termine “prova”, di quanto si va sostenendo. “Netanyahu ha fallito nell’obiettivo di smantellare Hamas”, oppure: “Hamas è un branco di terroristi”. “Musk è un fascista” piuttosto che: “Elon li ha di nuovo presi tutti per il naso”. Il fermo immagine ne sarebbe la conferma.

Purtroppo questo tipo di atteggiamento è la conferma che il dibattito accesosi ormai diversi mesi fa attorno all’uso dell’intelligenza artificiale non è riuscito a far maturare in noi la capacità di relazionarci con le immagini con cui ci confrontiamo. Nonostante si tratti, in tutti i casi citati, di fotografie o fotogrammi “tradizionali” essi non hanno, in sé stessi, una capacità di dire la verità superiore quella del papa che sfoggia il piumino bianco Balenciaga.

È evidente che fotografia ha un rapporto tutto particolare con la realtà. Una relazione più intima rispetto a quella che della parola o di altri linguaggi. Basti pensare che, ad esempio, potremmo riempire pagine descrivendo un unicorno, ma non potremmo mai esibirne un’immagine fotografica. Perché? Perché, per ottenere una fotografia, occorre necessariamente che qualcosa «sia stato» (è l’espressione che usa Roland Barthes) davanti all’obiettivo e abbia impressionato una superficie fotosensibile.

Verità e menzogna

La fotografia ha una capacità enorme di fedeltà rispetto ai dettagli del soggetto che riprende. È una qualità analoga a quella dello specchio. Questo, comunemente, ci fa ritenere un documento fotografico più attendibile di un verbale. La fattualità della fotografia è certamente la sua caratteristica principale. Nessuno “crede” a un dipinto o a una poesia allo stesso modo. «Per quanto possano mentire», diceva lo scrittore e saggista americano Wright Morris, «Le fotografie lo fanno con le materie prime della verità».

Ma quali sono queste «materie prime»? Lo spazio e il tempo. Ogni fotografia è intrinsecamente legata a un “qui” e “ora”. Ogni variazione di queste coordinate andrà a produrre una fotografia diversa. Eppure nel saggio Nella caverna di Platone del 1977, Susan Sontag scriveva: «Anche se c’è un senso in cui la macchina fotografica cattura la realtà, non solo la interpreta, le fotografie sono un’interpretazione del mondo tanto quanto lo sono i dipinti e i disegni». Ogni fotografia, sosteneva l’autrice, è inevitabilmente il prodotto di innumerevoli decisioni informate, consapevolmente o meno, dalle predilezioni e dai pregiudizi del fotografo, nonché dai limiti e dai parametri della tecnologia.

AFP

Bisogno di didascalia

Che cosa significa questo? Una fotografia – soltanto una – non riesce a dar conto del passare del tempo (non sappiamo se quell’uomo con i mano il cappello se lo stia mettendo oppure se lo sta togliendo). E poi una foto può rappresentare solo un punto di vista alla volta. Un’immagine di un fotogiornalista, “di per sé”, non ci dice dove e quando è stata scattata. E, soprattutto, non sa dirci da sola che cosa rappresenta.

La fotografia è un gigante con i piedi d’argilla: non sa dire da sola che cosa rappresenta. Ha il disperato bisogno delle parole di una didascalia. Se il testo che la accompagna è corretto, allora può diventare un documento. Ma come facciamo a sapere se una didascalia è giusta? La storia della falsificazione dei documenti di identità, ci racconta la precarietà di questo rapporto simbiotico tra immagine e parola. Se sotto il mio ritratto viene scritto un nome diverso dal mio, qualsiasi persona potrebbe spacciarsi per me.

Ma questa natura paradossale delle immagini fotografie che cosa ci dice delle fotografie che abbiamo visto negli ultimi giorni? Qual è la didascalia che le “verifica”, che dà loro significato? In questo caso, proprio per la natura eccezionale dei fatti ritratti, scrivere “Hamas libera gli ostaggi israeliani” o “Ritratto ufficiale del presidente Trump” o “Elon Musk alla cerimonia del 20 gennaio a Washington” non basterebbe.

Ho l’impressione che la didascalia vera sia costituita da tutto ciò che abbiamo letto o sentito a riguardo di ciascuno di questi argomenti. Hamas in quella foto è l’Hamas che conosciamo già. Così per Trump o Musk. A conferma del fatto che è chi guarda, spesso e volentieri, a decidere che cosa vede, c’è la risposta che Musk e i suoi ammiratori hanno dato all’accusa di fascismo: negli ultimi giorni hanno postato immagini di avversari, con pedigree democratico, ritratti mentre stendono il loro braccio destro verso il cielo.

Ma è un discorso che non vale solo per le immagini. Verrebbe voglia di dire che, alla fine, la realtà è quella cosa che serve a confermare i nostri pregiudizi. Ma sappiamo che non è così. È che la rappresentazione della realtà, anche la più fedele, quella che mostra “i fatti” non è mai tutta la realtà. Occorre tener conto di ciò che non si vede o ciò che non riusciamo a vedere e che non si può non può registrare.

Non parlo delle teorie del complotto. Penso all’odore del campo di battaglia. Al profumo dell’aria dentro la Cappella Sistina. Ogni volta che guadiamo un’immagine (ma non solo) occorre tenerlo presente, e stare attenti a non autoingannarci. Altrimenti saremmo i migliori alleati di chi ci vuole manipolare.

EPA

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