Frasi intercettate, decontestualizzate, tagliate e rimontate per restituire la parvenza di un grande complotto: è sempre la stessa storia, da quando dieci anni fa la virologa Ilaria Capua veniva accusata di essere una “trafficante di virus”.

L’esperienza avrebbe dovuto vaccinarci, ma ovviamente è il contrario: ci ha assuefatti. Ormai ogni fuga di notizie è l'occasione per cercare conferma delle proprie certezze, assemblando alla bell’e meglio le tessere di un puzzle indiziario.

L'ultimo caso riguarda la World Professional Association for Transgender Health, ovvero una delle più importanti autorità sulla transizione di genere.

Stralci di conversazioni tra i medici sono diventati di dominio pubblico e sembrano mostrare degli apprendisti stregoni alle prese con interventi capaci di stravolgere la vita delle persone, spesso minorenni.

Il caso Wpath

L’Economist parla di «incertezze sulle cure per le persone transgender» e il Guardian di leak «disturbanti». La stampa di destra ha colto l'occasione per denunciare un diabolico piano transumanista, poche settimane dopo che il ministero della Salute italiano ha ordinato un’ispezione presso l’ospedale Careggi di Firenze paventando pratiche terapeutiche scorrette.

L'interpretazione delle intercettazioni è un esercizio periglioso che, comunque la pensiamo sul tema, dobbiamo rifiutarci di fare. Non c'è bisogno di origliare alle porte per sapere che la medicina della transizione di genere è un campo giovane e che la sua natura sperimentale pone enormi questioni etiche.

Intervenire sullo sviluppo psicologico, ormonale e fisico di individui in età puberale o prepuberale ha effetti a lungo termine difficili da prevedere.

Per questo il sistema sanitario inglese ha deciso, proprio questa settimana, di interrompere la prescrizione dei bloccanti ormonali. Discuterne per fortuna non è proibito, anzi è necessario: basta non farsi trascinare troppo dalla fantasia.

Dietro a quei medici dipinti come dei dottor Mengele ci sono, di tutta evidenza, i proverbiali metri lineari di buone intenzioni. Non si capisce il dilemma etico che sta lacerando le società occidentali senza ascoltare innanzitutto le ragioni che motivano la difesa di un programma di medicalizzazione con così tante incognite.

Genere e disforia

Ripartiamo dalle basi: la stragrande maggioranza delle società umane assegna dei ruoli di genere in base al sesso biologico. Insomma se nasci con certe caratteristiche anatomiche ti tocca essere socializzato in un modo oppure in un altro.

In origine, la ratio di questa differenziazione era legata alla disparità di forza fisica e ai diversi ruoli riproduttivi. La struttura delle società moderne avrebbe dovuto cancellare ogni differenziazione, ma di tutta evidenza le cose sono più complesse e il genere resiste. Come il famoso calabrone la cui struttura alare non dovrebbe permettere di volare, e invece vola.

Questo non sarebbe un problema, se non fosse che a molte persone il genere assegnato sta stretto come una prigione: si parla allora di disforia.

La socializzazione, quell'operazione di condizionamento attraverso la quale ogni società imprime sugli individui dei tratti culturali, non si svolge sempre in modo lineare.

Perciò a chi subisce una pressione sociale troppo forte o non dispone delle opportunità per emanciparsi all’interno del genere assegnato, viene offerta oggi la possibilità di sottoporsi a interventi chirurgici e farmacologici di transizione.

La diffusione mimetica di questo fenomeno, prima negli Usa e ora più timidamente in Europa, pare segnalare l’attrattiva di un nuovo modello d'identità, che promette di neutralizzare il conflitto doloroso tra esigenze individuali e collettive da cui discendeva secondo Freud il disagio della civiltà.

Tuttavia neanche questa soluzione è esente da problemi: lungi dal trovare finalmente pace, le persone trans sono vittima di discriminazione e spesso di violenza.

Inoltre sono confrontate all’esperienza stessa della transizione, provante sul piano fisico e psichico. Ed è proprio per mitigare il trauma di questa esperienza che gli specialisti di salute transgender difendono la necessità di anticipare quanto possibile la transizione, sottoponendo giovani pazienti a trattamenti ormonali. Ma chi decide, e sulla base di cosa? Ecco servito il dilemma etico.

Il dilemma della prevenzione

Leggiamo, piuttosto che le intercettazioni rubate, le parole messe nero su bianco dagli specialisti.

La professoressa Diane Ehrensaft, luminare della materia, difende un approccio farmacologico per bloccare la pubertà fin dai nove anni di età. Come spiega nel libro Il bambino gender creative (Odoya), si tratta di prevenire cambiamenti fisici che possono risultare traumatici e rendere più difficile una successiva transizione.

Secondo Ehrensaft «possiamo considerare il rifiuto di questo servizio come violenza su minore». La professoressa garantisce che «i bloccanti della pubertà sono un intervento del tutto reversibile e privo di qualsiasi rischio medico documentato, se somministrati sotto attento controllo da parte di personale medico preparato» – forse sottovalutando gli effetti psicologici di arrivare alla maggiore età dopo un’adolescenza così atipica.

Paiono lontani i tempi in cui la filosofa Judith Butler insisteva sulla performatività del genere come costrutto sociale: Ehrensaft non esita invece a parlare di un «vero genere» o «genere autentico», una sostanza racchiusa all'interno di ogni individuo, promuovendo l'idea che si possa nascere in un corpo sbagliato.

Il trattamento prepuberale della disforia di genere si colloca nel paradigma più generale della prevenzione, intesa come mitigazione del rischio.

Questo paradigma mira ad evitare che una minoranza della popolazione reagisca al proprio malessere con comportamenti autodistruttivi, fino al suicidio.

Ma prevenire significa anche medicalizzare una più ampia popolazione potenzialmente a rischio, infrangendo il principio ippocratico secondo cui non bisognerebbe sottoporre a cure mediche chi potrebbe farne a meno: un tema ampiamente sviscerato dallo psicologo Allen Frances nel suo libro Primo, non curare chi è sano. Contro l'invenzione delle malattie (Bollati Boringhieri).

Lo stesso paradigma preventivo ha spinto il boom di prescrizioni degli psicofarmaci negli Usa. Il problema, qui, è che ogni sforzo per mitigare il rischio produce un nuovo rischio. Lo racconta bene un altro libro, Indagine su un'epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell'epoca del boom degli psicofarmaci, del giornalista Robert Whitaker (Giovanni Fioriti editore).

La recente decisione del sistema sanitario inglese contro i bloccanti ormonali inverte la tendenza. Per accettare di barattare un rischio con un altro rischio, detto iatrogeno, bisogna avere una considerevole fiducia nella capacità diagnostica del personale medico, che sulla base di un esame approfondito dei comportamenti del minore formula l'ipotesi di disforia.

Ma una società obnubilata dagli stereotipi di genere – secondo cui la sensibilità è “femminile” e l’assertività “maschile” – è davvero in grado di tradurre la complessità dell’esperienza di un bambino in una chiara indicazione terapeutica?

I limiti della tolleranza

Prima di Butler, Michel Foucault ci aveva insegnato a diffidare dalle pretese essenzializzanti della medicina, soprattutto quando vuole stabilire cos’è normale per rimuovere il patologico.

Questo è il dilemma concreto al quale vengono confrontati i genitori che devono dare il consenso sui trattamenti farmacologici; ma è anche un dilemma che impegna l'intera società, vista la drammatica posta in gioco.

Le fazioni, intanto, polarizzano il dibattito. Sembrano ignorare il fatto che vivere in una società multiculturale richiede lo sforzo sovrumano di tollerare anche delle cose che ci sembrano intollerabili. Perché dietro ogni rivendicazione ci sono individui in carne ed ossa.

Ma anche la tolleranza ha dei limiti, soprattutto di fronte a questioni profondamente divisive, e non sarà il “consenso scientifico” a toglierci le castagne dal fuoco. Si tratta, di volta in volta, di negoziare una soluzione politica sulla base di convinzioni etiche.

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