Alla letteratura si è sempre chiesto di essere “morale”: i classici sono pieni di azioni nobili, solidarietà, eroismo, amicizie esemplari, fede, altruismo pietoso, amore per i parenti e per la patria, sacrifici, slanci rivoluzionari; il lieto fine è sempre stato gradito ma anche il finale tragico era riscattato con la faccenda della catarsi.

Perfino i libri più apertamente edificanti possono essere ottimi: si cita sempre Resurrezione, e Tolstoj era grande pure quando scriveva i sillabari per gli scolaretti – dalle Georgiche al Vangelo di Matteo, da Walden al Piccolo principe, le intenzioni educative hanno saputo coniugarsi con la profondità. Quel che oggi mi pare diverso, e mi preoccupa, è la consegna generalizzata di rivolgersi al maggior numero, semplificando ed esteriorizzando i testi. Un tempo i mecenati chiedevano prefazioni elogiative, finalità encomiastiche, ma la complessità non era scoraggiata; la domanda di “popolarità” veniva piuttosto dalla Chiesa, o dai regimi totalitari – a quale Chiesa si obbedisce oggi, quale egemonia culturale svolge il ruolo di committente?

Quali sono le aspettative del lettore implicito presupposto da questo tipo di letteratura? Sembra quasi che alcuni temi siano “buoni” per definizione e che, individuati quelli, la forma abbia il solo compito di essere la più trasparente e comunicativa possibile. Di questa mia preoccupazione vorrei parlare, contro un engagement che mi pare sostanzialmente dimidiato e perfino controproducente; la Storia (anche quella della letteratura) conosce false piste e sentieri interrotti, rovesciamenti insospettabili e scomode alleanze.

Scrittori in trincea

Un caso particolarmente istruttivo mi pare per esempio quello della Capanna dello zio Tom: quando fu pubblicato, nel 1851, il suo impegno anti-schiavista era visto come talmente radicale che negli anni subito successivi nacque una serie di romanzi anti-Tom (il più noto dei quali è forse The Planter’s Northern Bride, di Caroline Lee Hentz) che sostenevano la ragionevolezza di una schiavitù “moderata”: raccontavano di matrimoni misti, di padroni che erano brava gente, sostenevano che i neri liberati sarebbero stati incapaci di governarsi e avrebbero condotto la nazione nel caos; né mancarono le accuse all’autrice di aver esagerato per procurarsi notorietà. La battaglia come si sa la vinse lei, Harriet Beecher Stowe: il suo romanzo ebbe uno straordinario successo, fu il libro più venduto negli States secondo solo alla Bibbia, e Lincoln incontrandola dopo la vittoria nella guerra di Secessione pare l’abbia omaggiata dicendole «ecco la piccola donna da cui è nato un così grande incendio».

Il libro in sé è un medio prodotto della letteratura umanitaria ottocentesca: scene terribili, ai limiti della sopportabilità e idonee a svegliare le coscienze, ma anche episodi melodrammatici, bontà angeliche e diaboliche malvagità, uno stile sentimentale a effetto. Tom è quasi un martire cristiano, conserva di fronte alle torture una indefettibile dignità, ma per lui l’obbedienza al “padrone” è una legge. La moglie cuor d’oro del proprietario si permette concessive del tipo «Tom, anche se è negro, è un uomo fedele»; e il marito conferma presentandolo a un eventuale nuovo compratore: «negro di razza eppure particolarmente giudizioso». La stessa autrice si lascia scappare frasi come «una di quelle canzoni selvagge, un po’ grottesche, comuni tra i negri».

Tanto è bastato perché un secolo dopo Tom diventasse un simbolo della vittima parzialmente complice di chi lo opprime: Cassius Clay scherniva i propri avversari neri dandogli dello “zio Tom”, a san Francisco provocatoriamente si chiamavano “zio Tom gay” quegli omosessuali che confermavano gli stereotipi; ora si condanna il libro per razzismo e la Disney ha ristrutturato nel proprio parco di divertimenti anche i Racconti di Uncle Remus, il vecchio nero pacifico e bonario che narrava ai “padroncini” le favole di fratel coniglietto e comare volpe (in Italia il film era stato tradotto come I racconti dello zio Tom).

I contesti cambiano, l’impegno pro può diventare un pericolo contro, l’autore non è in grado di controllare quanto il proprio desiderio di influire positivamente sulla realtà avrà fiato lungo o corto. La protesta immaginata per qualcosa può diventare protesta per qualcos’altro, e quest’altro a sua volta si può trasformare in un impulso regressivo, cambiando di segno. Le provinciali di Pascal sono un grido di sdegno a favore di una religione più pura (giansenista) e contro il lassismo gesuitico; Pascal usa le parole dei gesuiti contro di loro, citandoli ampiamente per rivelarne la malafede e l’opportunismo subalterno al potere; lo fa in modo così crudo che Luigi XIV nel 1660 fece sequestrare il libro.

Ma l’armamentario polemico di Pascal diventò una settantina d’anni dopo un arsenale retorico prezioso a disposizione degli illuministi per demolire la religione in quanto tale; e a loro volta gli orientalismi che gli illuministi usavano per dare una visione straniata e ridicola dei costumi parigini furono lievito per le nostalgie romantiche delle Orientali di Hugo. Le questioni di forma sono importanti quanto i contenuti e possono perfino rovesciarli; di questo parlerò, ma prima credo sia necessario periodizzare quello che vorrei chiamare neo-impegno, fissarne per così dire la data di nascita.

Dal 1989 la Storia (data per morta) si è rimessa a correre: il crollo del muro di Berlino, poi la fine dell’Unione Sovietica e le convulsioni del blocco comunista, le guerre in Jugoslavia (qui da noi mani pulite e la caduta della prima Repubblica), fino all’abbattimento delle torri gemelle nel 2001. Gli scrittori si sono sentiti presi in contropiede, si sono vergognati del loro precedente formalismo e hanno reagito con un ostentato disprezzo per la cura stilistica: in trincea non stai a vedere come sei pettinato. Soprattutto dopo il 2001 si sono sentiti in dovere di collaborare alla difesa di una democrazia percepita sotto attacco, scrittori in quanto cittadini e combattenti. Di fronte a un mondo fuori dai cardini, era necessario schierarsi.

Dalla parte giusta

La versione oggi prevalente dell’engagement punta su un contenutismo tanto orientato sulla cronaca quanto angusto, con temi che non è difficile elencare: migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti o avvocati in lotta col potere, criminalità organizzata, minoranze etniche. L’etica soggiacente si può riassumere in postulati discutibili ma mai discussi: amore e brutalità si escludono, la lotta basta a sé stessa, ciò che puoi sognare puoi farlo, non mollare mai, l’odio nasce dall’ignoranza, la violenza è sempre da condannare, bellezza è verità, i bambini sono innocenti. La resistenza prevale sul progetto; più che a disegnare una società nuova, “abolendo” (secondo la nota formula marxiana) “lo stato di cose presente”, il neo-impegno sembra teso a valorizzare l’opposizione in quanto tale e a confermarsi dalla parte giusta. Si fatica a distinguere tra l’uso benefico della parola quale si verifica in vari campi della cultura (psicanalisi, antropologia, educazione, giornalismo) e la letteratura, che invece dovrebbe essere ascolto e avventura della parola.

È bello che alla cerimonia di insediamento del presidente al Campidoglio venga invitato un poeta, ma se la poesia che viene declamata è mediocre dal punto di vista formale (Whitman di terza mano, enfasi retorica, il ricordo di un musical), qualcuno dovrebbe pur notarlo. Si dimentica che uno stereotipo resta uno stereotipo, che tratti di un maschio bianco sovranista o di una ragazza nera paraplegica. Se leggo, all’inizio di un romanzo, «Il blindo della cella 315 si aprì con un clangore da far tremare le sbarre», provo lo stesso senso di ripulsa che provava Valéry all’idea di un incipit come «La marchesa uscì alle cinque». L’impegno strizza l’occhio all’intrattenimento come l’intrattenimento lo strizza all’impegno (basta guardare le fiction sulle tivù generaliste, che sembrano fatte col manuale Cencelli del politicamente trendy: un nero, una suora progressista, una coppia omosessuale, una donna a capo del distretto di polizia, un handicappato…).

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