C’è un momento di strana ironia, in V13 di Emmanuel Carrère, il libro che racconta il processo per gli attentati terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi.

In aula viene interpellato per la prima volta l’unico terrorista superstite, Salah Abdelslam. «Professione?», gli chiede il presidente. «Combattente dello Stato islamico», risponde Abdelslam.

Il presidente abbassa lo sguardo sugli appunti e dice: «Io qui vedo: lavoratore interinale». È un piccolo sfottò, della cui brillantezza noi godiamo: il presidente fa valere la sua forza. È lui che decide il linguaggio con cui si gioca questa partita.

In fondo questo processo non ha molto da dire in termini punitivi: a parte Salah (che se l’è data a gambe prima di ammazzare) gli autori materiali degli attentati sono tutti morti.

Molto ha da dire, però, in termini di dimostrazioni simboliche, e la piccola battuta del presidente ne è un esempio: il processo è una celebrazione di forza, il rito con cui una nazione intera ripercorre un trauma, lo giudica, lo metabolizza.

Certo è difficile. Attraverso le testimonianze dei complici vivi, entriamo nelle vite degli attentatori morti. Ne emerge un panorama tremendo: non per eccesso di contenuti, ma per difetto.

Si pretenderebbe, da una carneficina che conta centrotrenta morti e oltre trecentocinquanta feriti, che gli autori fossero dei demoni, cavalieri del male venuti da un oscuro altrove mediorientale per distruggere la nostra civiltà.

In V13 entriamo nelle vite di pochi poveri dementi, radicalizzati non attraverso un percorso religioso ma per un progressivo inebetimento psichico fatto di canne, isolamento, ozio. Ore e ore passate nello scantinato di un bar della periferia di Bruxelles a rincoglionirsi su YouTube, in una disarmante mancanza di adeguati strumenti culturali e cognitivi.

Non c’è nessun perverso idealismo fanatico: piuttosto un vuoto pneumatico abitato da uno sconcertante squallore. Se quei ragazzi rappresentano un qualche ultrasuono oscuro, questo non viene da lontani deserti maomettani: ma da qui, da dentro, nel cuore di un disagio che è profondamente occidentale e urbano.

Rimozione della violenza

Questo libro è scioccante. Il racconto di quei massacri, da parte di chi c’era come di chi ci ha perso un figlio o un coniuge, è atroce e quasi insostenibile.

Mi sono costretto a non leggerlo più la sera: mi entrava negli incubi. Lo si è detto spesso, soprattutto durante la pandemia: viviamo da decenni nel privilegio di una pace imperforabile; tutta la nostra vita sociale si fonda sulla rimozione della violenza fisica dal nostro orizzonte.

L’ha detto bene Baricco fra le righe del suo The Game: la civiltà digitale nasce proprio per allontanare le minacce della brutalità, smaterializza il corpo per tenerlo al sicuro dagli attacchi.

Abbiamo allontanato la violenza fisica al punto da imparare a scovarla nel linguaggio, nei concetti, nelle desinenze. È questo il segreto più inconfessabile del libro: attrae per l’odore di sangue che emana, perché ci mette nel pericolo, nell’angoscia e nel terrore – i sentimenti della tragedia greca – pur nella consapevolezza di essere al sicuro.

Come scriveva Daniele Giglioli in un bel libro uscito anni fa per il Saggiatore: il terrorista ci restituisce una parte di noi che abbiamo perso. Ci riporta la giungla da cui millenni fa siamo scappati. E noi contempliamo tutto questo con orrore e sollievo, dal nostro avamposto sicuro.

Tuttavia non siamo al sicuro. La violenza esiste, e a volte salta fuori, a dimostrarci che la società non poggia su un equilibrio statico e armonioso, ma su un conflitto tra forze che a volte producono – com’è accaduto il 13 novembre 2015 – terrificanti cortocircuiti.

Questo conflitto è qui; e se non lo vediamo, è perché ci siamo troppo dentro. Quell’acqua in cui sono sobbollite le follie di quei giorni, è anche la nostra: è nell’isolamento sociale, nell’abbandono scolastico, nella disperazione individuale, nel disagio psichico che nascono i mostri. Mostri stupidi, abbandonati, soli, e forse per questo tanto più pericolosi.

Mostri come Omar Mostefai, uno dei macellai del Bataclan, che non è mai stato in Siria, che si è radicalizzato non in una moschea di Aleppo ma in un fetido monolocale di Courcouronnes, banlieue parigina, emblema eloquente del più assoluto abbandono sociale.

V13 è un libro istruttivo anche perché lava via da queste vicende tanto di quell’esotismo nero accumulato in questi anni di guerra allo straniero, e mostra come il brodo di coltura dei terroristi non sia solo religioso, ma anche (e forse soprattutto) sociale.

Mostri politici

Sarebbe utile se questo processo (e il libro che lo accompagna) fosse l’occasione per guardare questi mostri da un punto di vista finalmente politico. Quegli attentati non sono stati delle calamità naturali, né gli improvvisi spurghi di un Male atavico e assoluto: sono il delirante effetto farfalla di di un conflitto sociale.

Il Bataclan non è la scena di un delitto, ma un campo di battaglia. Dei nomi sono stati urlati in quello scannatoio, e non solo quello di Allah. Tutte le testimonianze riportate in V13 affermano che i terroristi, durante la loro furia omicida, dicevano alle vittime che avrebbero dovuto prendersela con François Hollande, allora presidente francese, promotore di politiche che ora, a distanza di anni, tutti unanimemente e serenamente definiscono scellerate.

Quella parola – Hollande – urlata in mezzo ai morti ammazzati, forse non è uno slogan così assurdo come Carrère vorrebbe far credere.

Nella sua paginetta arguta e sbrigativa dedicata alla comparsata processuale proprio dell’ex presidente, lo scrittore la fa breve: la scelta di convocarlo, scrive, è poco più che un sofisma, una formalità giudiziaria. Quando poi, verso la fine del libro, si parlerà della bassa estrazione sociale degli attentatori, anche lì Carrère se la sbrigherà con poco: sono poveri, sì, ma non poverissimi, non dei senzatetto insomma, «non facciamo ricatti sociologici».

Come se leggere politicamente i fatti del 13 novembre significasse giustificare le azioni degli attentatori, Carrère evita ogni interpretazione che possa anche solo suggerire quella direzione.

La miccia e l’esplosivo

Chissà se sarebbe stato diverso, questo libro, se invece che Emmanuel Carrère l’avesse scritto Edouard Louis, che appartiene alla stessa generazione della maggior parte degli uccisi (e dei loro assassini); che in Storia della violenza mostrava di saper guardare meglio cosa si agita in una periferia sociale; e che nello spettacolo tratto dal suo romanzo Chi ha ucciso mio padre, alla distruzione fisica, psichica e morale del genitore attribuiva nomi e cognomi: Sarkozy, Hollande, Macron. Appunto. Sponde opposte, stessi nomi.

Ogni grande processo dovrebbe riuscire a innescarne altri, diversi, fuori dal tribunale. E questo processo consentirà, spero, di evitare l’errore che in Italia si è fatto con i gruppi della lotta armata negli anni Settanta: concentrarsi solo sull’orrore, senza vedere le contraddizioni che l’hanno prodotto.

Lo Stato islamico è stato sconfitto, è vero, ma le contraddizioni che ne permettevano l’influenza in una città come Parigi sono ancora tutte lì, e forse ancora più drammatiche di quanto lo fossero nel 2015: povertà feroce, emarginazione, assenza di forze di coesione sociale, crollo dei servizi di istruzione, abbandono dei presidi culturali, derive psicologiche e psichiatriche allarmanti.

Ai margini della nostra bolla di lettori di Emmanuel Carrère continua a crescere una costellazione di disperati che qualunque forza sufficientemente eversiva potrebbe prima o poi riuscire a catalizzare in violenza. E forse lo sta già facendo. L’assenza dell’Isis è solo assenza della miccia, ma non dell’esplosivo.

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