Cultura

La lettura politica del Bataclan che Carrère evita di esplorare

Nel libro V13 l’autore non ci introduce ai titanici rappresentanti del Male, ma ci presenta le vite di pochi poveri dementi, radicalizzati per un progressivo inebetimento psichico fatto di canne, isolamento, ozio. Lo Stato islamico è stato sconfitto, ma le contraddizioni che ne permettevano l’influenza in una città come Parigi sono ancora tutte lì

  • Si pretenderebbe, da una carneficina che conta centrotrenta morti e oltre trecentocinquanta feriti, che gli autori fossero dei demoni, cavalieri del male venuti da un oscuro altrove mediorientale per distruggere la nostra civiltà.
  • Non c’è nessun perverso idealismo fanatico: piuttosto un vuoto pneumatico abitato da uno sconcertante squallore. Se quei ragazzi rappresentano un qualche ultrasuono oscuro, questo non viene da lontani deserti maomettani, ma da qui.
  • Ai margini della nostra bolla di lettori di Emmanuel Carrère continua a crescere una costellazione di disperati che qualunque forza sufficientemente eversiva potrebbe prima o poi riuscire a catalizzare in violenza.

C’è un momento di strana ironia, in V13 di Emmanuel Carrère, il libro che racconta il processo per gli attentati terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi. In aula viene interpellato per la prima volta l’unico terrorista superstite, Salah Abdelslam. «Professione?», gli chiede il presidente. «Combattente dello Stato islamico», risponde Abdelslam. Il presidente abbassa lo sguardo sugli appunti e dice: «Io qui vedo: lavoratore interinale». È un piccolo sfottò, della cui brillantezza noi godia

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