Se nella prima scena di un dramma teatrale si vede un fucile appeso al muro, scrisse Anton Cechov, prima della fine dovrà sparare. Vale ugualmente nello scenario geopolitico, in cui le tensioni internazionali oggi si intensificano e i fucili sono appesi ben in vista sui muri globali.

La proliferazione di tecnologie militari avanzate e l'accesso sempre più diffuso ad armamenti sofisticati, il progresso nelle tecnologie di sorveglianza, cyberwarfare e armamenti ipersonici trasforma i vecchi paradigmi di guerra, rendendo i conflitti più rapidi, letali e difficilmente contenibili. Inoltre, la corsa agli armamenti nello spazio e la militarizzazione di nuove frontiere come l'Artico aggiungono complessità a un quadro già di per sé intricato.

Le superpotenze stanno sviluppando nuove strategie basate sulla guerra ibrida, che fonde elementi convenzionali, tattiche informatiche e operazioni psicologiche, rendendo il panorama bellico ancor più imprevedibile.

In questo contesto, anche le alleanze internazionali, una volta baluardi di stabilità, si trovano ora in uno stato di fluente incertezza, con le nazioni che riconsiderano e ridefiniscono continuamente le loro posizioni in base a un equilibrio di potere sempre più mutevole.

Sulla superficie del pianeta si moltiplicano i focolai di crisi che potrebbero scatenare un effetto domino: dall’Ucraina al Medio Oriente, dalla Corea del Nord a Taiwan, senza parlare del Sahel e del Corno d’Africa, dell'America Latina, del Kashmir, del Nagorno-Karabakh Insomma sembra oramai improbabile che nei prossimi anni si possa evitare il fragore di un conflitto globale.

Un conflitto che potrebbe coinvolgere anche noi occidentali, che da ottant'anni siamo diventati gli spettatori della violenza del mondo. Il fucile di Cechov è lì, bello in vista.

Quale guerra?

Il “ritorno” della guerra è il tema dell'ultimo libro del filosofo francese Frédéric Gros, Perché la guerra?, che ho tradotto per Nottetempo. Sì ma quale guerra? Gros ne elenca varie, concentrandosi su tre macro-categorie: le guerre convenzionali, le guerre globali e le guerre di “caotizzazione”.

Le guerre classiche  – binarie o convenzionali – sono conflitti che coinvolgono due entità politiche distinte, spesso nazioni o Stati, con interessi politici, economici e simbolici chiari.

Questi conflitti tendono ad avere obiettivi definiti, con parti belligeranti che cercano di raggiungere un accordo per la fine delle ostilità. Sono contrapposizioni dirette tra gruppi armati, con l'uso di armi convenzionali come carri armati e missili. Hanno un considerevole vantaggio: seguono delle regole condivise e come iniziano, finiscono.

Le guerre globali, invece, si distinguono per la loro natura più ampia e complessa. Sono spesso conflitti che coinvolgono molteplici nazioni o gruppi su una scala internazionale, e possono includere elementi come il terrorismo globale.

Queste guerre si manifestano in modi che trascendono le tradizionali frontiere geografiche e politiche, coinvolgendo una varietà di attori non statali e statali in un contesto globalizzato. Nelle guerre globali, la popolazione civile diventa la vittima designata e il suo nemico è un altro apparente civile: il combattente irregolare, alternativamente chiamato “partigiano” o “terrorista”.

Le guerre di caotizzazione, infine, sono caratterizzate da violenze e conflitti che emergono in aree senza uno Stato forte, dove prevalgono la frammentazione e l'assenza di un ordine centrale.

In Africa e in Medio Oriente, questi conflitti si nutrono di una logica caotica e sono spesso interni, con due figure estreme della violenza: la violenza elementare della predazione e quella mistico-millenaristica.

Queste guerre non seguono il paradigma classico della guerra, che vede il conflitto come un mezzo per raggiungere la pace, ma piuttosto come un fine in sé, alimentando un ciclo continuo di violenza e caos. Le guerre di caotizzazione, insomma, possono anche non finire mai: esse nutrono le rendite di chi su quelle guerre prospera.

L’esperienza del Novecento

Il Novecento ha esibito l’intero spettro che porta dalla guerra classica, moderna, alle sue forme postmoderne. La prima e la seconda guerra mondiale, in fondo, già contenevano in germe gli elementi delle degenerazioni successive, in quanto guerre “totali”.

Il concetto di guerra totale nasceva per rendere conto degli orrori delle trincee (come l'offensiva a oltranza) e della mobilitazione completa delle nazioni nello sforzo bellico, che coinvolge uomini, donne, risorse materiali e morali.

Citando Ernest Jünger, Gros la descrive come un meccanismo che consuma risorse umane e materiali su una scala industriale, diventando così una metafora o addirittura una realizzazione del capitalismo nella sua ambizione smisurata. Questa forma di conflitto travalica le esigenze vitalistiche, in quanto è guidata dalla logica implacabile della tecnica, che trascende le esigenze biologiche e porta a una demenza autodistruttiva vertiginosa.

“Parte maledetta” della modernità, la guerra totale porta la nostra tendenza al consumo spropositato di risorse a manifestarsi in una logica di annientamento su vasta scala.

Un secondo aspetto della guerra totale, più visibile nel secondo conflitto mondiale, è la propensione a demonizzare l’avversario, facendone un “nemico assoluto” e giustificando così l'uso di mezzi sempre più mostruosi per la distruzione. La demonizzazione è necessaria per giustificare gli atti di distruzione di massa e per conservare un'immagine di giustizia o moralità nella condotta della guerra.

In questo senso, la guerra totale porta a una logica perversa dove la guerra è condotta non per la risoluzione di conflitti o per il raggiungimento della pace, ma per la sua stessa proliferazione e moltiplicazione, alimentando un ciclo di distruzione e violenza. Un carattere che si ritrova nelle guerre di caotizzazione.

Guerra e pace

Ma in tutto questo, perché la guerra? Gros prende di petto la domanda del titolo, offrendo varie risposte. Si fa la guerra per sfogare l’aggressività naturale, come sosteneva l’etologo Konrad Lorenz, o per esprimere la pulsione di morte secondo Freud. Si fa la guerra per avidità, ovvero per l’appropriazione delle risorse e per rivalità imperiali (Marx).

Ma si fa la guerra anche per paura (Hobbes), per difendersi da una minaccia vera o presunta, come nella “guerra preventiva”. Si fa la guerra per vanità e per prestigio, come dimostrazione di potere militare o per riaffermare la propria posizione. Si fa la guerra per risentimento e desiderio di rivincita, per odio legato a memorie storiche dolorose.

Tutto questo è indubbio, ma la risposta più spaventosa è quella che ci mette a confronto con un paradosso: si fa la guerra in nome della pace. Nessuna repubblica democratica sceglie la guerra per la guerra stessa, come affermava anche Kant. Tradizionalmente, ricorda Gros, la guerra è intrapresa con l'obiettivo di raggiungere una pace più duratura e significativa. Ed è qui che sorge il problema: questo spesso spinge gli uomini a compiere degli orrori in nome di quella pace futura, che assomiglia spaventosamente al regno di Dio in terra.

In questo modello, persino la pace può essere considerata semplicemente come un periodo di preparazione per guerre future che dovrebbero garantire una pace più perfetta. Questo intervallo di quiete permette ai belligeranti di riprendere forze e preparare armi più potenti, rendendo la pace un interregno tra due massacri, una pausa nella catena continua dei conflitti. Così, d’altronde, ha fatto spesso l’Occidente: guerre per emancipare, per liberare, per rendere il mondo un posto migliore. Ha funzionato? Non proprio.

Se oggi la possibilità della guerra torna a essere pensabile in Occidente, è anche perché l’Occidente non ha mai smesso di prepararsi alla guerra e non ha mai smesso di farla fuori dalle sue frontiere. Tutte le guerre del mondo si fanno con armi prodotte qui da noi, in territori da noi scaraventati nelle beghe territoriali della modernità, e nei quali i rapporti di dominazione servono allo sfruttamento di risorse di cui noi godiamo.

In questo teatro globale di guerra, l'Occidente non è solo spettatore ma anche attore. Non si capisce, dunque, perché mai dovrebbe restare al riparo dalle conseguenze di tutto questo.

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