La Missione Isola Sacra non è fuori dal mondo. È un isolotto della costa scozzese collegato alla terraferma da un sentiero pietroso che viene sommerso dall’alta marea. La terraferma però è un territorio nemico, infetto, insidioso, in cui ci si avventura solo per blitz di poche ore, armati di archi artigianali e lignee frecce appuntite. Soltanto i maschi. Perché nell’Isola sacra i ruoli sono tornati al posto giusto: le femmine a casa. Radio e medici sono preistoria. Il bacon è merce rara.

Verso i dodici anni, se sono di polso fermo, i maschietti affrontano con i papà il loro rito di passaggio, l’iniziazione alla virilità. Escono per la prima volta dal cancello fortificato e imparano a uccidere. «Più uccidi più diventa facile», ammonisce l’adulto. Le donne hanno già apparecchiato il pub per festeggiare, con gli striscioni di carta, il ritratto di una Queen Elizabeth giovanissima appeso al muro e i balli avvinazzati sulle note di Delilah, Tom Jones, 1968.

La Missione Isola Sacra per Danny Boyle è la Gran Bretagna del dopo-Brexit. È il genere di sottotesti, più o meno politici, che rende gli horror d’autore così speciali. 28 anni dopo arriva 23 anni dopo 28 giorni dopo, anche se il conto non torna. In mezzo c’è stato 28 settimane dopo, che però non era diretto da Boyle ma da Juan Carlos Fresnadillo. Il film esce in Italia il 18 giugno con Eagle Pictures, in anticipo sugli Usa.

Incasinare il marketing 

Il primo titolo del franchise, nel 2002, è stato l’esame di maturità dello zombie movie. Romero e Carpenter restavano i fondatori ma la Londra apocalittica del film (saccheggiata a man bassa dai notiziari inglesi durante il Covid, come premonizione) cavalcava le paure del Terzo Millennio e i dubbi sulle magnifiche sorti e progressive della tecnologia e della stessa civiltà occidentale. L’escalation dei non morti sul grande e piccolo schermo da allora è stata inesorabile.

Jamie (Aaron Taylor-Johnson) e suo figlio Spike (Alfie Williams) in 28 anni dopo (Columbia Pictures)

Era cinema intelligente e faceva una paura blu: effetto combinato di Danny Boyle regista e Alex Garland sceneggiatore. Che in coppia sono un caterpillar. E insieme si prendono anche il lusso burlone di incasinare gli schemini fissi del marketing. Perché 28 anni dopo sembra l’ultimo di una trilogia, ma invece è il primo di una nuova. Il prossimo è già stato girato, «per il terzo», dice il regista, «stiamo facendo il crowdfunding, se volete contribuire...».  Un po’scherza e un po’ no.

In barba agli otto Oscar per The Millionaire, che flirtava con Bollywood, il “mio” Danny Boyle resta quello di Trainspotting, il quarantenne smilzo e sornione che nel 1996 declinava in linguaggio pop la filosofia giovanile dell’ero(ina). Ognuno ha diritto ai suoi culti personali. Con quel film ha “inventato” Ewan McGregor, e con 28 giorni dopo ha “inventato” Cillian Murphy, che oggi firma solo da produttore esecutivo ma che – anche se il regista fa il vago per stuzzicare i fan club dedicati – dovremmo ritrovare nel prossimo film. La cosa più affascinante di questo ritorno sulla scena del delitto, chiamiamolo così, è il grado di libertà assoluta che ti sciorina davanti.

È lo stesso statuto d’autore che definiva Boyle trent’anni fa, anche se oggi batte bandiera Sony Pictures e ha la grancassa dei blockbuster. È narrazione tanto colta, evocativa, magistralmente intarsiata di citazioni cinefile e filmati d’epoca quanto i dettagli, le decapitazioni realistiche di uomini e bestie, il gocciolare del sangue, l’adrenalina lisergica sono da brivido.

C’è l’ironia feroce di certi nessi. L’incipit riguarda il passato: le orde degli infetti dal virus della rabbia che sterminano una famiglia e si avventano sulla chiesa. «È il giorno del Giudizio!», proclama estatico il pastore in preghiera, mentre dal suo nascondiglio il figlio singhiozza: «Padre, perché mi hai abbandonato?».

L’apocalisse in un solo paese

L’Arcadia indigente della Missione Isola Sacra è una delle microcomunità sopravvissute alla micidiale epidemia britannica. Il resto del mondo è andato avanti tranquillo, limitandosi a pattugliare le coste infestate dagli ex-umani: i Bassi-Lenti, larve obese che strisciano come vermi e di vermi si cibano, e gli Alfa, cannibaleschi e superdotati. Anche questa indifferenza del mondo rispetto al collasso di un’area ci suggerisce qualcosa.

Jamie (Aaron Taylor-Johson), Isla, tormentata da un male sconosciuto (Jodie Corner) e il loro figlio dodicenne Spike (Alfie Williams) compongono il nucleo familiare focus del racconto. Sconvolto dall’intimità del padre con un’altra donna, Spike trascina la madre con sé nell’inferno di fuori, alla ricerca di un Dottor Kelson che i vecchi ricordano ma forse è leggenda. Un medico che possa curarla è la sua sola speranza.

Location da sballo e virtù stilistiche a parte, 28 anni dopo sovverte la narrazione seriale di The Walking Dead e The Last of Us. La pietas, la compassione, ad esempio. Al ragazzino hanno insegnato ad uccidere a vista, ma si rifiuta di sfracellare i piccoli. Perché si, le brutte creature si riproducono, e anche questa è una novità. Di fronte a un’infetta che sta partorendo, Isla ragiona da madre, le tiene le mani, annoda e taglia il cordone ombelicale, prende la neonata con sé.Perché essere in guerra anche contro i bambini? Buona domanda, anche extra-finzione.

Ancora: lo scarto tra il post-Apocalisse localizzato e il resto del mondo. Un soldato della marina svedese mostra a Jamie la foto della sua fidanzata, labbroni a canotto e botox fuori controllo. Jamie lo compatisce: «Cos’ha? Anche una ragazza del villaggio diventa così, è allergia ai frutti di mare».

La meta finale, il romitaggio allegorico del Dottor Kelson, però, è la chicca più succulenta. Ralph Fiennes, imbrattato di un rosso che non è sangue ma disinfettante, arriva dritto dal Kurtz di Apocalypse Now e di Cuore di Tenebra. È un Marlon Brando virato di segno. Ha chiamato il suo tempio Memento Mori. È una piramide di teschi umani, circondata da maestose colonne di tibie. Ma ripulite, lisciate, un nitore sereno. Come tributo alle vittime, tutte. Le sane e le infette. Perché nessuno perde la propria qualità umana. E lo sguardo umanista del medico contempla la morte senza pregiudizi. Anche la morte pietosa da dare quando una malattia è terminale.

Fare arte con l’horror

Mica finisce qui il film, tranquilli. Ma Danny Boyle fabbrica arte con l’horror. Non è un alchimista, non è come convertire il piombo in oro. Si può, e non è solo questione di estetica. «Il mondo diventa ogni giorno più incomprensibile», sostiene, «e questo è il motivo per cui l’horror affascina tanto. Quando abbiamo realizzato il primo film ci dicevano chiaro e tondo che tagliavamo fuori il pubblico femminile. Oggi la situazione è cambiata: le donne l’horror lo vedono. Alle proiezioni-test in America, la partecipazione più attiva e più stimolante, nei dibattiti dopo la proiezione, veniva dalle spettatrici. Si chiedevano se l’etichetta “horror” fosse quella più adatta, perché è un film che contiene anche molto altro.

Perché piace l’horror? Perché è un modo per esorcizzare le tue paure, il tuo disgusto, la tua avversione per tutti gli orrori largamente peggiori che ti circondano. E perché l’horror è un genere elastico, particolarmente flessibile. Puoi dilatarlo a comprendere idee complesse, spingerlo in direzioni diverse. È un fantastico genere di comunicazione».

Musica per le orecchie di chi, causa la salda affezione al genere, si è sempre sentita una zombie tra gente sana.

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