Robbie Williams con Nicole Kidman, I Cani, Alessandra Amoroso. Non è l’inizio di un sogno che ho fatto dopo aver mangiato indiano, ma l’elenco di associazioni libere prodotte dal mio cervello la prima volta che ho letto il titolo del secondo romanzo di Alice Valeria Oliveri, Una cosa stupida, appena uscito per Mondadori. Titolo perfetto, come era anche quello del suo esordio (Sabato champagne, scritta gialla su campo rosso Repubblica Popolare Cinese) e che con quella Torre Velasca in copertina, per quanto mi riguarda, poteva chiamarsi anche “Un libro per Giulia Pilotti” (meno incisivo, mi rendo conto, un po’ di nicchia).

Era già successo con Sabato Champagne: nella storia di Anita, una giovane donna che ripercorreva la sua formazione attraverso il palinsesto Mediaset, una specie di Slumdog Millionaire delle minchiate che abbiamo tutti guardato in tv tra gli anni Novanta e i Duemila, mi ero trovata più volte a pensare che la protagonista fosse una chiara proiezione della sua autrice e che Oliveri avesse avuto gli stessi genitori, gli stessi amici, la stessa vita che avevo avuto io, solo a qualche chilometro di distanza. Un’incredibile quantità di coincidenze e congiunzioni astrali che mi hanno fatto sospettare più di una volta che fossimo, dopotutto, la stessa persona.

Parlare di tutti, con tutti

E invece non solo non siamo la stessa persona – lo dimostra il fatto che Alice ha già finito e pubblicato due libri mentre io dico a tutti che «sto scrivendo» da anni, sfatando una volta per tutte il mito del nord produttivo e del sud sfaticato – non solo questo non è Un libro per Giulia Pilotti, ma è la più chiara manifestazione di un talento narrativo, quello che ti fa sentire parte di un circolino minuscolo, di una gag tra amiche, quando in realtà sta parlando di tutti, con tutti.

In Una cosa stupida Adriana Franco prova per un po’ a realizzare un sogno, senza capire mai bene a chi questo sogno appartenga davvero, se a lei o a suo padre. Dubbio che comunque viene spazzato via quando nel pieno della costruzione della propria identità – la musica, l’amica ribelle, un turbinio di trilli su Msn – viene trapiantata da Catania a Milano, lontana dal mare, vicina ad altre cose, tutte piuttosto stupide. Adolescenti formali, case in montagna, e quell’enorme pilastro di cemento che sembra la letterale manifestazione del suo disagio e della sua incongruenza in quella città, in cui non smetterà mai di sentirsi fuori posto, come le sembra fuori posto quel grattacielo sgraziato.

Una perfetta storia di formazione, un po’ Caterina va in città, un po’ Bret Easton Ellis con i Ray Ban a goccia al posto dei Wayfarer, in cui attraverso tutta una serie di cose stupide, stupidissime, si delinea l’impeccabile ritratto di una generazione intera, che farà sospirare noi poveri millennial nostalgici. È il nostro punto debole, la nostalgia, ma Oliveri ci capisce e ci viene incontro regalandoci il piacere dell’amarcord: tra i capitoli del romanzo sono disseminate brevi schede di oggetti e concetti imprescindibili – qualcuno direbbe “iconici” – che hanno segnato le nostre gioventù bruciacchiate. L’Ipod da due giga con la custodia di silicone, le Silver della Nike, il Nokia 3310. «Ti sblocco un ricordo», direbbe la stessa persona che prima ha detto «iconici». Ad ogni modo, non so esprimere l’entusiasmo che ho provato trovando la parola “pantajazz” nelle prime pagine del romanzo.

Entusiasmo che mi si è riproposto molte volte nel corso della lettura e che ancora una volta mi ha fatto pensare «ma sono io!». Le aspettative, la solitudine, il precariato culturale. Oliveri parla a me e a molti altri, non ci piove. Sono certa, infatti, che l’elenco di associazioni libere che vanno da Nicole Kidman ad Alessandra Amoroso passando per Niccolò Contessa, siano perfettamente comprensibili all’autrice che come la sottoscritta ha la testa ampiamente occupata da cose stupide. La nostalgia è una macchina inarrestabile e produce connessioni infinite, ci scava dentro, ci getta in buchi neri apparentemente infiniti, mentre sondiamo gli abissi più profondi della nostra memoria, in cui rimbomba lontana l’eco delle prime suonerie polifoniche e del Pulcino Pio.

Simboli d’indipendenza

In trasparenza, ma neanche troppo velata, Oliveri racconta anche una realtà editoriale che sta tra Vice e Rivista Studio, una redazione assolutamente desiderabile e profondamente ridicola, marcia e sfavillante come solo Milano sa essere, che dovrebbe permettere ad Adriana di realizzarsi, ma non fa che radicalizzare la sua rabbia.

C’è poi la Torre Velasca, all’ombra della quale io ho abitato per i miei primi anni a Milano e che ho sempre amato come simbolo della mia indipendenza, a differenza di Adriana che con l’edificio ha un rapporto bianciardiano. A qualcuno piace, a molti fa schifo. Adriana la ritiene il correlativo oggettivo della sua infelicità.

Io vorrei viverci dentro. Ma questa, lo so, è la cosa più stupida di tutte.


"Una cosa stupida" di Alice Valeria Oliveri, 2025, Mondadori

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