Ottimismo dark e crudele, ancora. La definizione viene da un mirabolante saggio di Laurent Berlant (Cruel Optimism, Duke University Press, è di dieci anni fa) la cui tesi grosso modo è: nelle sempre evocate e mai avvenute rovine del capitalismo e contemporaneamente dell’utopia socialista (il mix tra speranza non basata sui fatti e melanconia che caratterizza ormai da decenni l’accademia umanistica americana) siamo costretti a una performance di ottimismo, non tanto per gli altri ma per noi stessi.

Il saggio offre una il libro offre letture sintomatiche di casi classici di speranza immotivata e soprattutto solitaria: il culto del ripigliarsi o del “self help”, la biomedicina e l’ayahuasca, l’idea favolistica del lavoro che ti dà promozioni, l’affannosa ricerca del “nuovo”.

Un continuo allenarsi contro l’abisso che richiede immensa fatica e sprazzi di gioia proprio nel momento in cui la disperazione sembra avere la meglio, e invece si rompe il fiato e si va.

Atletismo mentale

Le sfilate “alte” autunno/inverno 2024-25 risentono di questo ossimoro (fine del tempo del lavoro rigido ma ritorno invece della settimana classica con l’abito della festa nel weekend) e nasano abbastanza l’aria del tempo. Che tuttavia nulla come una strabiliante nuova testata – digitale e cartacea – becca in pieno, con precisione balistica assoluta.

Si chiama Menthal Athletic, è al primo e lucidissimo numero ma ha già una valanga di storie e post Instagram. Racconta di “running” e di gente che corre. Di club che stanno sorgendo ovunque e da anni per correre insieme: all’alba, di notte, a cazzo.

E sotto corre – letteralmente – una rete di collaborazioni con i grandi marchi di sportwear nelle loro frange più sofisticate ed estreme (da Nike a Adidas, a Reebok) e naturalmente alla galassia di realtà più o meno indipendenti che progettano oggetti e ambienti bellissimi un po’ in tutte le grandi città del mondo (Satisfy, ecc).

Ma siamo al contrario del salutismo e della voglia di longevità. Menthal Athletic, con la sua cifra visiva sgranata e post-digitale, è a sua volta un dopolavoro/postlavoro di vecchi e nuovi punk, gente che fa fatica in tutti i sensi, gloriosa estetica africanoamericana (da inizio anni Ottanta) e prevalentemente maschile, perché più fragile.

Cadute e riprese

I racconti sono quelli di cadute e riprese, di trionfi giornalieri contro tutto e tutti, di solidarietà e appunto neo-associazioni per ora solo sportive. La testata è politica come poche altre.

Con gite verso la montagna, e i piedi gonfi mostrati con orgoglio alla fine di certe sgroppate, e anche le ferite, i tagli, le ginocchia sbucciate. In questo è parente sia di certe frange dell’estetica gorpcore (anche questa raccontata da tempo da queste parti) che alla fantastica narrazione romantico/tardo teenager quale quella di un marchio bellissimo come il milanese Rayon Vert International (e non a caso collaborano insieme sul primo numero).

La testata è firmata da due delle menti/cuori più belli dell’editoria europea: Achille Filipponi e Matteo Milaneschi, già autori della prima impeccabile fase del magazine Archivio, dell’attuale archivio digitale online del distributore Slam Jam (trasformato in uno dei migliori repository di storia della cultura urbana degli ultimi 50 anni) e persino di una rivista di poesia (che sotto ovviamente ci sta, anche nell’atletica amatoriale di strada) misteriosamente intitolata Canada.

Sincronizzarsi

Matte armature per scontri anti-regime a parte (o bambole impazzite e imbottite di tritolo, come quelle strabilianti disegnate da John Galliano per la bellissima sfilata di Maison Margela Artisal), la Moda perderà terreno rovinosamente, se non saprà risincronizzarsi su questa onda antagonista che rifiuta la disperazione e che altrimenti, come tutto, rischia di venir risucchiata nel vortice meloniano e suoi simili nel mondo. Le ginocchia, si sa, bisogna sbucciarsele se si vuole crescere.

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