I romanzi si possono dividere in tre grandi categorie: quelli nostalgici, nati già vecchi, quelli contemporanei, che sprofondano nel tempo presente, e i romanzi scritti dal futuro.

Accade infatti che certi libri, dopo lo spiazzamento iniziale, si reincarnino, tornino tra noi rivelando una natura altra, perfetta per il tempo che stiamo attraversando. E che quindi si possa parlare, in riferimento alla loro prima apparizione – curiosa, magari fraintesa – di profezia narrativa, preveggenza.

Sembrerebbe un po’ questo il caso di XY, il romanzo-Cassandra di Sandro Veronesi uscito dieci anni fa con Fandango e ora riportato in libreria da La Nave di Teso dopo i fasti de Il colibrì, un libro incentrato sulle conseguenze psicologiche e morali di una strage tanto efferata quanto inspiegabile, davanti alla quale scienza e ragione si arrendono, le vocazioni religiose vacillano e la follia monta imperiosa deturpando la mente dei sopravvissuti.

La realtà che si sgretola

Un dramma psichico, uno psicodramma travestito da thriller pieno di corpi allegorici e iperconnessi, che all’epoca destabilizzò e persino infastidì, col suo mistero che non si risolve – qui, in realtà, il vero centro poetico e speculativo del libro – e che adesso irrompe di nuovo sulla scena consegnandoci intuizioni che molto hanno a che vedere col nostro tempo irretito, sconvolto. Che fare quando il mondo esce dai cardini? Come si può provare a restare in sé, a non lasciarsi andare all’abbrutimento, al negazionismo, alla follia?

XY è una grande indagine sugli effetti dell’inaudito che umilia la ragione, sulle perizie inutili, sui protocolli scientifici che saltano a causa di un male misterioso su cui si affollano opinioni antitetiche e reazioni spropositate. Vi ricorda qualcosa?

La genesi metatestuale del romanzo è interessante: Veronesi, rimasto orfano all’improvviso di entrambi i genitori, colpiti in simultanea dal cancro, prova a universalizzare il suo smarrimento privato. Reagisce estroflettendo poeticamente il trauma. E quindi immagina.

Immagina un borgo di montagna, in Trentino, Borgo San Giuda – «nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate» – votato a un santo maledetto o forse solo frainteso, un presepe compulsivamente innevato in cui un giorno all’improvviso undici corpi vengono trovati straziati sotto un albero ricoperto di sangue ghiacciato.

Undici persone morte di cause tutte diverse, terribili e scandalosamente incoerenti. Esalazioni di ossido di carbonio, decapitazione, soffocamento da crosta di pane, iniezione letale, espianto di organi, overdose, sevizie sessuali. Regolamento di conti, suicidio di massa? Attentato? Allucinazione, punizione divina? Niente si tiene: nel bosco vicino a Borgo San Giuda è scoppiata la bolla che conteneva tutte le paure del mondo.

Come se non bastasse, nel medesimo istante – tutti gli orologi delle vittime fermi sulle 9.45 – una giovane psichiatra, Giovanna Gassion, coprotagonista insieme a don Ermete, sacerdote del cluster montano, si sveglia in un bagno di sangue, «sulle lenzuola, sul cuscino, dappertutto. Mi hanno ammazzata?». Una vecchia cicatrice alla mano riaperta. Dopo quindici anni. Impossibile, tutto impossibile. L’impossibile accade.

Accade di colpo: la trama logico-causale della realtà si sgretola e i due protagonisti, una donna di scienza e un uomo di fede, nel tentativo di salvare gli abitati di Borgo San Giuda – preda di disturbi mentali sempre più violenti – finiranno col doversi accontentare di salvare sé stessi, asserragliandosi in canonica, mentre fuori la comunità è in balia di uccelli parlanti, incesti, intossicazioni d’acqua, occhi di vetro scagliati come pietre, cavalli che piangono, presunti colpevoli che si danno fuoco in piazza e le autorità che costruiscono versioni alternative dei fatti, mentono, occultano.

Le fake news vengono digerite di buon grado da tutti: si preferisce rimuovere, far finta di non aver visto. La verità è sostituita dal qualcosa di più sopportabile. Qui si va dritti al cuore del rifiuto dei negazionisti, che preferiscono credere a un complotto assurdo piuttosto che accettare una realtà sconvolgente.

Qualcosa che abbiamo sotto gli occhi da mesi. Proprio in questi giorni le notizie dagli Usa ci parlano di pazienti covid che muoiono increduli, convinti che il coronavirus non esista, che chiedono alle infermiere mentre se ne stanno andando: «Ditemi la verità, che malattia ho?».

Accettare l’assenza di senso

Perché oltre alla trama esteriore, in XY c’è soprattutto una trama interiore: c’è l’ambiente psichico che esibisce sintonie e richiami sorprendenti con l’emergenza mondiale che ha mutilato le nostre vite e ci ha scaraventato nell’impensabile. Per salvarsi dalla morsa inaccettabile del suo dolore di orfano Sandro Veronesi ha inventato un presente. Il nostro.

XY infatti è anche un libro sulla necessità di non distogliere lo sguardo dall’inspiegabile in un mondo in cui i pilastri del vivere civile – informazione, diritto, scienza – non tengono più, su come accettare l’incomprensibile senza scivolare nella psicopatologia, un libro sul sentirsi orfani da tutto ciò che ci proteggeva e non ci protegge più.

«Quando i miei si sono ammalati», racconta Veronesi, «mi sono trovato a mentire, falsificare referti. La scienza non dava speranza, e il diritto… Che diritti ha uno che sta per morire?». È partito da lì, da quello smottamento personale, e ha costruito tutto un mondo plasmato da perdite che sono le nostre di oggi.

Noi che dobbiamo fare i conti con una scienza squassata da dichiarazioni contraddittorie e scontri mediatici, noi che vediamo venir meno i diritti alla cura e alla salute, coi pazienti rifiutati dagli ospedali e lasciati soffocare a casa senza assistenza, noi storditi dall’infodemia che inquina il nostro senso del vero e del falso. Che non conosciamo l’origine di questo virus e la forma che avrà il nostro futuro.

Il libro sfocia in un lungo dialogo, cinquanta pagine, che rievoca quelli platonici per la sinergia maieutica tra tesi e controtesi. Un dialogo che è un’alleanza tra fede e scienza nell’impotenza. In un mondo che si smarrisce, l’unione dei reciproci smarrimenti – senza garanzie, punti saldi, obiettivi possibili – è tutto ciò che ci resta.

Il sentimento della realtà, suggerisce la crittografia psichica di Veronesi, viene preservato solo dal mutuo rispecchiarsi, dal fissare, insieme, il centro nebuloso e terrorizzante della catastrofe in arrivo.

Il cuore del dialogo finale del romanzo è il concetto di “capacità negativa”: un tipo particolare di attenzione non ristorata da un senso definito, un dispositivo terapeutico messo a fuoco da Wilfred Bion, psicanalista inglese autore de Il cambiamento catastrofico, che ebbe tra i suoi pazienti anche Samuel Beckett. È la capacità di tollerare l’insaturo, accettare l’assenza di senso.

Accettare non è fuga né resa: è disponibilità, riuscire a stare di fronte all’indeterminatezza per accorgersi di cose che altrimenti verrebbero trascurate e sviluppare le associazioni intuitive. «Abbiamo davanti un mistero enorme, come possiamo pretendere di scioglierlo? Accontentiamoci di osservarlo». Osservarlo. Soprattutto senza capirlo. Sospendere il giudizio. Stare a vedere.

C’è tutta una tradizione che ha indagato su questi temi, una tradizione prevalentemente femminile, ricostruita dalla filosofa Roberta De Monticelli in un suo libro di qualche anno fa, L’ordine del cuore.

Edith Stein, allieva di Edmund Husserl e poi vittima della persecuzione ebraica, ha scritto pagine importanti sui pericoli della rimozione e lo stesso ha fatto Etty Hillesum, nel suo prodigioso diario e nelle sue lettere: «Se non sapremo offrire al mondo nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà. Dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti.

Allora forse, sulla base di una ricerca comune e onesta di chiarezza su questi avvenimenti oscuri, la vita tratta fuori dai suoi cardini potrà di nuovo spostarsi in avanti, di un piccolo passo timido».

Il che equivale a dire: anche quando non si ha modo di intervenire direttamente sullo scenario esterno, anche quando la possibilità di orientarsi è smarrita, conserviamo comunque, fino alla fine, la possibilità di scegliere da che parte stare. L’atteggiamento, l’intonazione affettiva da offrire a un mondo che, tra i deliri e gli strepitii, non smette di aver bisogno di noi.

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