La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione

La salma di Calvino arrivò in un carro funebre scortato dalla polizia. Dovevo mettermi al lavoro, tirare fuori il taccuino speciale che mi ero portato dietro, un regalo di Lauretta. L'ultimo prima che tra noi tutto precipitasse. Lo aveva comprato a Londra. Marca Aspinal, fogli color avorio con bordi dorati. Era un peccato scriverci sopra, tanta raffinatezza mi paralizzava. Infatti, non lo avevo mai usato. Ora l'occasione giusta era finalmente giunta. Avrei onorato Calvino con uno dei prodotti più squisiti della celebrata cartoleria anglosassone. Lauretta me lo aveva regalato perché anche lei, come mio padre, sognava che io scrivessi qualcosa di bello e duraturo, un romanzo che sarebbe rimasto nella storia. Il taccuino doveva costituire il mio passaporto per la gloria. Come mai si fosse fatta questa idea non saprei spiegarlo. Non le avevo mai detto nulla della mia tradizione familiare, che ero l'ultimo discendente di una dinastia di scribacchini. Me ne guardavo bene. La mia famiglia non ci faceva una gran figura. Tutti quei libri dei miei avi, scritti e non pubblicati, sembravano le lettere di una malaugurante catena di Sant'Antonio che i miei parenti più stretti si erano scambiate nel corso dei secoli. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Armeggiai per tirar fuori il taccuino. Si era impigliato nella cucitura della tasca. Così, per estrarlo, fui costretto a fare un gesto esagerato, plateale, come se stessi snudando una spada dal fodero. La scena non sfuggì a Gore Vidal. Lo scrittore americano imparentato addirittura con i Kennedy era il più illustre fra i partecipanti alla mesta cerimonia nel cimitero di Castiglione della Pescaia. Scrutava i dintorni, forse a caccia anche lui di dettagli utili, magari simbolici, o almeno suggestivi, per il reportage bellissimo che avrebbe scritto in seguito sulla sepoltura dell'amico scrittore italiano sulla New York Review of Books. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Una copia della prestigiosa rivista con l'articolo commemorativo di Vidal è qui sulla scrivania mentre, a quarant'anni di distanza, mi sforzo di ricostruire quella lontana giornata nel mio romanzetto d'appendice. La tengo a mo' di talismano, perché possa essermi utile ispirandomi, risvegliando una sensazione, un ricordo, ma soprattutto come un memento mori, per ripetere a me stesso che non sarò mai capace di scrivere un reportage come quello di Vidal e che, secondo tradizione di famiglia a cui non si sfugge, resto condannato a essere uno scrittore di mezza tacca. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Già da qualche minuto mi ero secondo che Vidal mi osservava. Secondo me, era la valigetta ventiquattrore che avevo con me ad averlo insospettito. Perché mi aggiravo in un cimitero con l'aria di un agente della Cia o di un contrabbandiere di diamanti? Cosa c'era di così prezioso nella valigetta da non potermene staccare? Una somma in banconote di piccolo taglio frutto di un ricatto? Documenti top secret che se rivelati avrebbero sconvolto il mondo come il vaso di Pandora scoperchiato? Nemmeno uno scrittore dotato della fantasia lussureggiante di Vidal sarebbe mai riuscito a immaginare che nella valigetta c'era la sola e unica copia del manoscritto del romanzo inedito di Calvino. Cominciai a prendere appunti sul taccuino. Per i vialetti del cimitero si aggirava una scolaresca. Ragazzini e ragazzine che si sforzavano di tenere un atteggiamento compunto. Però c'erano momenti che non riuscivano a controllarsi e si sfogavano con piccole corse tra le tombe, subito rimproverati con bisbigli dalla loro insegnante, una donna magra, con vistosi occhiali da sole a forma di farfalla per nascondere, pensai, gli occhi lucidi dalla commozione. La intervista. Mi disse che proprio quell'anno aveva scelto come libro di lettura i racconti di Marcovaldo . La classe ne era rimasta entusiasta. Ed erano stati proprio loro, gli alunni, saputo della morte dello scrittore, a chiederle di partecipare al funerale. «Sa», disse la professoressa «avevo promesso di portarli un giorno a conoscere Calvino, magari proprio una volta che si trovava nella sua casa nella pineta. Sarebbe stato bellissimo e invece…». La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione La cerimonia, intanto, procedeva. La bara era già stata calata nella fossa. I muratori cercavano di fare il loro ingrato lavoro con il minor rumore possibile. La figlia di Calvino era vestita di bianco. L'avevo vista sempre così, in bianco, nei giorni trascorsi all'ospedale al capezzale del padre. Ma l'abito che aveva indosso per l'ultimo saluto era la prima volta che glielo vedevo. La immaginai quella mattina mentre lo sceglieva nell'armadio della casa nella pineta. Mi ricordò per il candore del vestito e l'espressione impaurita del bel viso una delle sfortunate eroine dei racconti horror di Edgar Allan Poe. Non ci furono discorsi malgrado la presenza di tanti scrittori che avrebbero saputo trovare parole bellissime, alate, struggenti. Erano rimasti in silenzio. E pensavo che fosse una scelta appropriata. D'altra parte, proprio Calvino con i suoi leggendari silenzi aveva saputo dire molte cose, più che con mille parole. Appuntai su uno dei fogli color avorio del taccuino Aspinal la frase pronunciata alla fine dalla moglie dello scrittore. La sussurrò rivolta a un'amica: «Mi piace qui, è bello. Domani tornerò per aggiustare un po' meglio tutti questi fiori». Poi sfollamo tutti. Uscendo mi fermai a ricopiare le parole del manifesto funebre firmato dal sindaco di Castiglione affisso al muro del cimitero: La terra di Palomar, col suo mare, le sue onde, i suoi boschi, i suoi silenzi, così meravigliosamente cantati dal Maestro, rende l'ultimo, sincero, affettuoso, sentito omaggio a Italo Calvino. Mi sento in colpa. Palomar era l'unico suo libro che non avevo letto. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Arrivai alla macchina e stavo per aprire il baule e depositare la ventiquattrore quando mi si affiancò un uomo. Lo fece senza far rumore e trasalii. Ci trovavamo comunque nei pressi di un cimitero. Poi riconobbi Gore Vidal, i suoi occhi da rapace notturno erano puntati sulla valigetta. Aveva proprio un aspetto presidenziale; qualcosa dello stile dei Kennedy gli era rimasto addosso. Mi presentai, una sua dichiarazione poteva tornarmi comoda per il pezzo che dovevo scrivere. Ma lui mi precedette e cominciò a intervistarmi. «Conosce Palomar ?». «Lei deve avere il potere di leggere nella mente altrui. Stavo pensando proprio a questo, che Palomar è l'unico libro di Calvino che non conosco». «Farebbe bene a leggerlo allora. Almeno l'ultimo capitolo, quello che si intitola Come imparare a essere morto ». Non c'era più nessuno, tutte le macchine erano andate via eccetto la mia e la sua, un'auto a noleggio con l'autista che aspettava seduto al volante. Nel silenzio sceso sopra il cimitero e sotto la leggera pioggia che aveva ripreso a cadere, Gore Vidal recitò a memoria: «Il signor Palomar decide che d'ora innanzi egli si comporterà come se fosse morto, per vedere come se la cava il mondo senza di lui». Lo ascoltai chinando la testa. Era l'orazione che prima nessuno si era sentito di fare ea cui il forte accento americano dello scrittore dava uno strano, indefinibile sapore. Quando ebbe terminato, Vidal disse: «Ci deve essere qualcosa di veramente prezioso in quella sua valigetta». Allora capii che quell'incontro non era fortuito, che c'era la mano del destino. «Se ha un momento, le racconto la storia di questa ventiquattrore» dissi e mi sentii come se non fossi io a pronunciare quelle parole, come se fossi un pilota d'aereo che lascia i comandi al suo secondo nonostante sappia che costui è un pazzo spericolato. «Allora siamo un posto tranquillo dove fare due chiacchiere» disse Vidal. «Ce n'è uno che fa perfettamente al nostro caso» dissi io. «È proprio qui vicino. Si chiama Roccamare Resort». La faccia di Vidal si illuminò e sorrise divertito: «Ne ho sentito parlare. Ho avuto qualche esperienza nel mondo del cinema. Non era la villa che il produttore Carlo Ponti fece costruire per Sophia Loren? Quella con la piscina disegnata a forma di piede, il piede dell'attrice che amava alla follia?». Ci demmo appuntamento al Resort. In che guaio mi stavo andando a cacciare? (Fine ventiquattresima puntata – continua) [Missing Caption][Missing Credit]