(Riassunto puntate precedenti. Perché Italo Calvino, che lotta tra la vita e la morte in ospedale, ha affidato proprio a lui un manoscritto, unica copia di un nuovo romanzo? E perché prova la fastidiosa sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante? Sono le questioni che assillano un giovane cronista inviato a Siena per raccontare quei giorni drammatici del settembre 1985)


Nel frattempo Calvino aveva rilasciato una intervista. Non a un collega per fortuna, se no avrei preso un buco che il mio capocronista non mi avrebbe mai perdonato. Lo scrittore aveva trascorso una notte tranquilla. Al risveglio, i medici gli avevano posto qualche domanda. Era stato il dottor Persico, l’amico di Ginevra (e forse qualcosa di più, ancora non mi era chiaro), a intervistarlo.

«Le fa male la testa?»

«No».

«Si sente tranquillo?»

«Sì».

Intervista finita (il dottor Persico non voleva affaticare l’illustre paziente). Per quanto laconica, mi sembrò l’intervista più importante nella vita di Calvino. E ne ero a conoscenza soltanto io. Persico aveva riferito il suo colloquio con Calvino a Ginevra (c’era sicuramente qualcosa tra loro due) e lei era corsa a informarmi (c’era qualcosa tra noi due?).

Un’osservazione di Ginevra al termine del suo racconto mi aveva fatto pensare: un “no” e un “sì” erano state le sole parole pronunciate da Calvino nelle diciannove ore passate da quando si era sentito male. In fondo, aveva commentato Ginevra, uno potrebbe campare limitandosi a dire sì o no e facendo a meno di tutte le altre parole. Sarebbe una vita ridotta all’osso, ma riuscirebbe a cavarsela lo stesso.

«Forse parliamo troppo, dovremmo parlare meno» aveva filosofeggiato. La ragazza non finiva di stupirmi. Poi, prima di scappare via perché l’intervento chirurgico stava per cominciare, aggiunse un’altra cosa.

Sulla soglia della sala operatoria, al pianterreno dell’antico ospedale, lo scrittore aveva potuto scambiare altre due parole (di numero) con la moglie Chichita. «Hai dormito?» aveva chiesto lei. «E tu?» aveva risposto lui. Poi il primario aveva fatto segno che era tempo di andare.

Stavolta fui io a filosofeggiare. Vista la situazione in cui si trovava, quella domanda poteva essere l’ultima cosa detta da Calvino e forse non era rivolta soltanto alla moglie, ma chiamava in causa tutti, come un redde rationem: «E tu?». Se lo avesse chiesto a me, come avrei replicato? Che, nella peggiore delle eventualità, avrei distrutto il manoscritto del suo romanzo inedito come era nei patti?

Di quel romanzo Calvino non era rimasto contento, però prima di disfarsene lo aveva dato da leggere a me, un perfetto sconosciuto. Perché si era comportato così? Un gesto incomprensibile in un uomo come lui, riservato, geloso del suo lavoro. Come aveva potuto fidarsi di me, contare sulla mia discrezione? Se non fosse sopravvissuto all’aneurismectomia, il manoscritto avrebbe acquistato un valore enorme. L’ultimo romanzo di Italo Calvino! Gli editori avrebbero lottato per contenderselo, disputandoselo all’asta con rilanci sempre più folli.

A che gioco aveva voluto giocare? In quale misteriosa partita mi aveva coinvolto? Forse il suo era un esperimento come Il castello dei destini incrociati, la storia da lui inventata smazzando le carte dei tarocchi. Un ennesimo (ultimo?) esperimento che consisteva nel lasciare il manoscritto ripudiato libero di andarsene solo per il mondo sottraendosi alla patria potestà dell’autore. Calvino aveva sigillato il suo messaggio in una bottiglia e l’aveva affidata ai flutti del mare, ai capricci delle correnti. E la bottiglia ero io.

Uscii dall’ospedale e cercai un bar con un telefono a gettoni. In tasca avevo sempre una scorta di quei dischetti di bronzo, fondamentali allora, in assenza dei telefonini, nel lavoro di un cronista, più ancora dell’occorrente per scrivere. Dovevo sentire il mio Capo e aggiornarlo sugli ultimi eventi. Ero certo che avrebbe apprezzato la storia dell’intervista in due battute rilasciata da Calvino ai medici dell’ospedale.

Del mio capocronista vi ho già detto. Nelle redazioni i tipi come lui li chiamavano culi di pietra perché sedevano notte e giorno alla scrivania a sbrigare il lavoro di cucina: correggere gli articoli, spaccarsi la testa sui titoli e le didascalie delle foto come fossero rebus della Settimana Enigmistica. Il resto del tempo i culi di pietra lo passavano a discutere con i cronisti e gli inviati su come impostare l’articolo (ed era questo il motivo per cui dovevo consultare al più presto il Capo, prima di mettermi a scrivere il mio secondo pezzo da inviato speciale al capezzale di Italo Calvino).

Trovai un bar vuoto di clienti. Un posto squallido, quello che serviva: le telefonate col Capo mettevano a dura prova i miei nervi, meglio non avere testimoni. Ordinai un espresso e chiesi di usare il telefono. Il barista annuì rassegnato, sapeva bene che la gente non veniva lì attirata dalla bontà del suo caffè. Ficcai una manciata di gettoni nell’apparecchio e feci il numero della redazione. Solo uno squillo e il Capo rispose. Poi, senza perdersi in convenevoli, attaccò a leggere ad alta voce l’articolo che avevo scritto il giorno prima. Giunto al punto in cui raccontavo che Calvino si era sentito male mentre, nella pace del suo giardino e nella serenità balsamica di Roccamare, sfogliava i giornali in attesa del pranzo, mi domandò a bruciapelo: «In attesa di mangiare cosa?».

Era fatto così. Per lui contavano soltanto i particolari e più erano piccoli e meglio era.

«Non lo so» ammisi.

«Chiedilo alla moglie. È importante».

A me non sembrava e nemmeno mi pareva il caso di importunare la povera donna domandandole quale fosse il piatto del giorno quel venerdì a casa Calvino. Ero un giornalista, non il cliente di una trattoria che chiede ragguagli sul menu. Ma rimasi zitto per evitare l’ennesima discussione con il Capo sul modo diverso in cui intendevamo il mestiere. Una differenza che posso sintetizzare così: lui pensava che un giornalista deve volare basso, io pensavo che deve volare alto. Ora l’ho capito che aveva ragione lui e vorrei chiedergli scusa, ma è troppo tardi.

La telefonata prese l’andazzo solito di tutte le nostre telefonate. Mi sentii catapultato indietro nel tempo tra i banchi delle medie, interrogato dal professore proprio sulla materia che non avevo studiato. In questi casi sarebbe più onorevole fare scena muta, ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire e così cercai di arrangiare una risposta secondo il modus operandi di ogni studente impreparato.

«Cosa doveva mangiare ieri a pranzo Calvino lo ignoro, però so qual è la sua pietanza preferita».

«E cioè?» chiese lui incuriosito. Forse riuscivo a strappare la sufficienza.

«Pollo con patate rigorosamente mangiato con le mani». Dovevo averlo letto da qualche parte e provvidenzialmente mi era appena tornato in mente. Dicendolo ebbi per un attimo la visione di un condannato a morte in un carcere americano, vestito di arancione come un Hare Krishna, che chiede, come ultimo pasto prima di salire sulla sedia elettrica, una porzione abbondante di pollo con patate. Era un’immagine di cattivo gusto, anche di malaugurio, ma fu illuminante. Capii che il Capo voleva questo da me, che raccontassi ciò che stava accadendo all’ospedale in stile ultime ore di un condannato a morte. Non era stato lui una volta a paragonare i giornali a sacche di sangue per le trasfusioni che i lettori ciucciano come vampiri sull’orlo della disidratazione?

Dall’altra parte del filo seguì un lungo silenzio. Era caduta la linea? Erano finiti i gettoni? No, rimuginava. Alla fine emise un semplice «Bah», la stringata conclusione di un lungo ragionamento. Pollo con patate? Non se ne parlava nemmeno. Un lettore medio di giornali (la divinità insaziabile che noi scribacchini dovevamo dissetare con quotidiane donazioni di inchiostro) pretende da uno scrittore famoso gusti gastronomici più raffinati. Come, per esempio, stufato d’anatra con ripieno di granchi. Che, per chi non lo sapesse, era il piatto preferito da Nero Wolfe, il mio personaggio letterario prediletto.

«Ci vorrebbe un colpo di scena» disse il Capo e mentre lo diceva mi ricordai della cosa che avevo pensato poco prima e poi si era dileguata come certi sogni al risveglio, lasciandomi una strana angoscia addosso. Era una cosa importante. Una questione di vita o di morte. E non era un modo di dire. I lettori volevano sangue? L’avrebbero avuto. Avrebbero avuto il sangue di Giorgio S, il cronista di nera, il mio amico più caro. «Capo!» urlai con voce strozzata.

(Fine quindicesima puntata – continua)

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