La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione

(Puntate precedenti... Siena, settembre 1985. Italo Calvino muore e il giovane cronista Leo assiste ai funerali stretto in una morsa. Da una parte custodisce il manoscritto inedito dello scrittore, un segreto che scotta. Dall’altra è inquieto per la sorte di Giorgio S., il suo amico sparito misteriosamente) C’era un sacco di gente famosa ai funerali di Italo Calvino. I giornalisti correvano in giro appuntandone i nomi sui taccuini. Sembravano impegnati a raccontare un ricevimento mondano invece di una cerimonia funebre. Ricordo la foga con cui Emanuele Corsetti del Corriere, Giacinto Marinelli di Repubblica, Gloria Ersili del Giorno e gli altri colleghi registravano i nomi delle personalità presenti quel giorno al cimitero di Castiglione della Pescaia. Mi fecero pensare ad agenti dell’Fbi che prendono le targhe delle auto per schedare i partecipanti alle esequie di un padrino della mafia. Sul momento mi vergognai di quel pensiero, mi suonò quasi blasfemo: eravamo al funerale di un grande scrittore e non a quello di un boss della mala. Mesi dopo scoprii che non ero stato l’unico ad avere quella strana impressione. Lo scrittore americano Gore Vidal, molto amico di Calvino, scrisse un commosso reportage sul funerale e raccontò così il suo ingresso nel cimitero: «Poi, sulla destra, alla fine dell’atrio, all’aria aperta, contro un muro basso, vedo una fila d’immense corone di fiori, adatte ad un gangster americano o napoletano…». La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione La partenza da Siena Ero partito di mattina presto da Siena diretto a Castiglione della Pescaia. Avevo attraversato boschi bellissimi di pini di Aleppo, lo stesso itinerario che avrebbe seguito da lì a poche ore il carro funebre con la bara di Calvino. Durante il viaggio mi aveva tenuto compagnia il fantasma del mio amico e collega Giorgio S., di cui non avevo più notizie da settimane. Continuavo a pormi le stesse domande. Era davvero stato rapito dalla banda di terroristi che ce l’aveva con lui? Possibile c’entrasse qualcosa con l’omicidio di un informatore che gli aveva promesso importanti rivelazioni su un efferato caso di cronaca nera (un travestito argentino fatto a pezzi dentro una vasca da bagno)? Mai come in quel momento avrei avuto bisogno dei consigli di Giorgio S., di chiedergli cosa dovevo fare del manoscritto del romanzo inedito di Calvino in mio possesso. Lo tenevo nel baule della mia macchina, chiuso in una valigetta nera ventiquattrore, di quelle con la combinazione come nei film di spionaggio. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Il cimitero Il cimitero era in cima a una collina e guardava il mare, lo stesso che Calvino guardava dalla sua casa nella pineta. Era una bella giornata di sole, anche se a volte, un po’ incongruamente, veniva giù qualche spruzzo d’acqua. In questi casi (quando il sole si mischia alla pioggia) al Sud si dice che il diavolo sta picchiando sua moglie. Quando arrivai non c’era ancora nessuno. Chiesi al custode di indicarmi il posto dove avrebbero sepolto Calvino. Molto gentilmente mi ci accompagnò di persona. L’ultimo domicilio dello scrittore si trovava tra una grande tomba di famiglia e due tombe più modeste. Quella di una donna che si chiamava Argia Meogrossi e quella di un uomo che si chiamava Rutilio Caparri. Erano questi i nuovi vicini di casa di Calvino. Guardai le foto. Argia era ritratta in piedi su un prato, uno scatto normale, quasi casuale, che nessuno avrebbe mai immaginato potesse finire sul passaporto per l’eternità della donna. Rutilio, invece, si era messo in posa: distinto e signorile con tanto di papillon. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Destino famigliare Cominciarono ad arrivare scrittori ed editori. Si raccolsero in cerchio attorno alla tomba predisposta per Calvino. Riconobbi Natalia Ginzburg (col figlio Carlo), Gore Vidal, Luigi Malerba (con la moglie Anna), Daniele Del Giudice, Livio Garzanti, Giulio Einaudi, Roberto Calasso, Gina Lagorio (che era la moglie di Garzanti), Umberto Eco, Gianni Celati. Li guardavo e pensavo a mio padre. Se fosse stato vivo, gli sarebbe piaciuto trovarsi lì, tra quegli scrittori che da generazioni popolavano i nostri incubi e le nostre speranze. Aveva sempre sognato di diventare un autore famoso. Era il destino della nostra famiglia, lato paterno, da secoli. Per quanto se ne poteva sapere risalendo all’indietro nel tempo i miei avi erano stati tutti uomini di penna: giornalisti, scrittori, storici, cronisti. Il mio trisnonno era l’autore di una Storia di Cosenza in tredici volumi rimasta inedita e custodita da mio padre in una cassapanca. Il bisnonno, seguendo le orme paterne, aveva scritto l’avventura di Alarico, il re dei Goti che, dopo aver saccheggiato Roma, era venuto a morire di malaria proprio a Cosenza ed era stato sepolto con addosso l’armatura alla confluenza dei fiumi Busento e Crati assieme alle sue sette spose bionde, ai suoi sette cavalli bianchi e al suo tesoro personale. Otto volumi in tutto, finiti anche essi nella cassapanca, una specie di tomba dei sogni di famiglia. Mio nonno aveva seguito la tradizione, però un po’ deragliando. Aveva, infatti, affrontato un argomento tabù. La vita e le opere di Don Panto, che non era un mafioso italoamericano, come il nome potrebbe far pensare, ma un prete vissuto nel Seicento ad Aprigliano, un paese a una ventina di chilometri da Cosenza. Don Panto non si era limitato a dire messa, ma era stato autore di centinaia di versi pornografici. I suoi capolavori, la Cunneide e la Cazzeide, erano dedicate rispettivamente all’organo sessuale femminile e a quello maschile. Due volumi rimasti inediti, secondo la maledizione di famiglia, nella solita cassapanca, per la precisione in un sottofondo segreto allestito da mio padre che un po’ si vergognava dell’opera del genitore. Non ci si poteva sottrarre alla tradizione di famiglia e mio padre non si sottrasse. Però decise di cambiare aria, di uscire fuori dal passato e dai confini cittadini. Scrisse un romanzo rosa con protagonisti uno scrittore e un’attrice nell’Italia degli anni ’50. Era ispirato alla storia vera dell’amore tra Italo Calvino e Elsa De Giorgi. Una ricostruzione minuziosa. Era riuscito persino a leggere alcune delle quattrocento lettere che i due amanti si erano scambiate. Anche questo dattiloscritto era rimasto inedito. Mio padre mi aveva fatto giurare di seguire la tradizione. Avrei fatto lo scrittore così come i figli dei farmacisti fanno i farmacisti, i figli degli avvocati gli avvocati, i figli dei medici i medici. «E, infatti, eccomi qui, in qualità di pennivendolo», pensai riguardando le foto di Argia e di Rutilio mentre il diavolo aveva smesso di picchiare la moglie e il sole si era fatto più alto e splendente nel cielo sopra quel cimitero vista mare. Non sarei mai diventato uno scrittore famoso. Lo sapevo già allora e, ancora di più, lo so adesso, quarant’anni dopo. Però, morto mio padre all’improvviso, ero stato colto da rimorsi e sensi di colpa. Non volevo venire meno al giuramento e così ebbi l’idea. La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Il manoscritto Con un escamotage potevo tentare di rispettare la tradizione di famiglia. Ero il legittimo erede del manoscritto paterno. Potevo disporne come volevo. Perciò lo avevo preso dalla cassapanca e lo avevo portato a Calvino. Chi meglio di lui avrebbe potuto decidere qual era il suo giusto destino? E così avevo fatto. Avevo incontrato Calvino pochi mesi prima, a giugno, nella sua casa di Roccamare con la scusa di un’intervista e gli avevo consegnato il manoscritto. Con questa mossa ritenevo di avere assolto ogni mio impegno familiare. Calvino si era molto divertito quando gli avevo raccontato la storia della dinastia di scribacchini condannati a un perpetuo fallimento. Mi aveva chiesto di descrivergli centimetro per centimetro la cassapanca che custodiva i tesori di famiglia. «Sembra la storia dei Buendía di Márquez!» aveva detto ridendo, con un lampo ironico negli occhi. Un brillio che interpretai così: questo potrebbe essere l’argomento di un bel romanzo. Si era divertito meno quando gli avevo detto che la storia scritta da mio padre era quella da lui avuta con la bellissima diva cinematografica. I miei ricordi furono interrotti dall’arrivo della bara di Calvino. Guardai l’ora: erano del 14:35 del 20 settembre 1985. Un nuovo spruzzo di pioggia. Il litigio coniugale a casa del diavolo non doveva ancora essere finito. Gocce caddero sui partecipanti al funerale, sulle tombe, sulle corone di fiori e sulla valigetta ventiquattrore che non mi ero fidato di lasciare dentro il baule della macchina. Probabilmente tutti stavano chiedendosi cosa custodisse di tanto prezioso. (Fine ventitreesima puntata – continua) [Missing Caption][Missing Credit]