È la mattina del 5 novembre 2020 e l’Italia è appena stata divisa in colori a seconda della gravità del contagio. Un domani, ripensando a questo giorno, spero di ricordare solo il blu dei capelli di Marisa Laurito e il rosso delle rose adagiate sul feretro di Gigi Proietti.

I funerali si sono svolti in diretta televisiva su Rai Uno, prima con un momento di condivisione laica sul palco del Globe Theatre, poi con la funzione religiosa presso la chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo.

Chi in quel momento è sintonizzato vede persone amiche e congiunte, esponenti di arte e politica. Ci sono le distanze e le mascherine, qualcuno accenna un canto, ci sono fogli che cadono per l’emozione, c’è chi inizia piangendo e chiude con una battuta, chi invece fa l’esatto contrario.

Quando la bara viene alzata, gli applausi che già non accennavano a scemare, si levano ancora più forti. La comunità esprime il suo sentire come fosse una voce unica. In quel momento dice non vogliamo che te ne vai, ma dice anche: vogliamo starti vicini ora che ti vediamo andare via sul serio. Le porte sono chiuse, la città non ha potuto riversarsi per la strada ed esprimere il suo dolore.

Gigi Proietti se n’è andato mostrandosi attore sul palco nel giorno del suo funerale e dicendoci ancora molte cose. Per esempio quanto può essere estesa una comunità e come a nutrirla non siano solo i sistemi di produzione. Ma anche che il palcoscenico non è un capriccio, bensì un rituale così come lo sono le esequie funebri.

I rituali hanno accompagnato ogni nostro passo evolutivo: è così che stiamo insieme, che ci confrontiamo, che diamo legittimità alle figure carismatiche, che i piccoli crescono e i grandi passano il testimone.

Nella prefazione a Ritualità del silenzio. Guida per il cerimoniere funebre (Maria Angela Gelati, nuovadimensione 2018) la direttrice del Master in death studies & the end of life Ines Testoni scrive che «La perdita di una persona cara è una ferita inferta a una famiglia ma anche alla comunità di cui essa fa parte, ed entrambe sono impegnate a elaborare il dolore di questa crisi attraverso azioni che indichino il ripristino della vita quotidiana». In questo senso la diretta è stata di primaria importanza per lenire la ferita collettiva, perché come ha detto Paola Cortellesi «un grande artista è patrimonio comune».

Senza più funerali

Per chi non è patrimonio comune la riflessione non è però meno urgente e, la pandemia che ci ha già tolto tanto, ci priva anche della possibilità di recarci liberamente a un funerale. Le cerimonie non sono proibite come nel pieno del lockdown, ma le linee guida in merito restano quantomai approssimative.

Le ultime indicazioni ai prefetti, consultabili sul sito del Ministero degli Interni, risalgono al 30 aprile 2020 con ultimo aggiornamento al 4 maggio: si prevede un massimo di quindici congiunti con svolgimento del rito preferibilmente all’aperto, si chiede di mantenere il distanziamento e di evitare assembramenti, cortei, segni di pace. I riti devono svolgersi nel medesimo luogo in cui si celebra la cerimonia funebre.

Questo scarno vademecum non è sufficiente e la situazione è complicata da almeno tre elementi.

Il primo è che i riti funebri andavano svuotandosi della loro forza da ben prima della pandemia, il secondo è che non basta stare chiusi in casa per stare bene, il terzo è che il contagio esiste al pari della necessità di distanziamento.

Davanti alle esequie in diretta del mattatore di Roma, mi sono dunque detta che anche stavolta dobbiamo fidarci del cambiamento anziché temerlo. Videochiamate, videomessaggi, streaming, foto, condivisioni social, commenti e post pubblici. Tutto ciò che un anno fa – se applicato a questo comparto – ci sarebbe sembrato inquietante morbosità, oggi è un supporto psicologico ed emotivo fondamentale.

Se è vero che la pandemia ci ha tolto tanto, è vero anche che la tecnologia può aiutarci a non ridurre l’ultimo saluto a un momento di abbandono e solitudine, e ricordarci che ognuno di noi è patrimonio della sua comunità.

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