Non mi sono mai sentita meno attraente di così. Ho sfangato un’adolescenza da gnomo senza tette e una vita di denti storti senza fare una piega, per ritrovarmi poi all’alba dei trent’anni a misurarmi il girocoscia con apprensione e a spalmarmi in faccia dieci creme al giorno, nella speranza di trasformarmi magicamente in un filtro di Instagram. Un anno e mezzo di reclusione di certo non fa bene alla mente – ne abbiamo le prove – ma a voler essere un po’ superficiali pure l’aspetto fisico può risentirne.

Nel mio caso forse c’entra comunque più la testa che un declino oggettivo: è vero che ho preso qualche chilo e nessuno dei miei pantaloni mi si chiude più, è vero che ho la pelle del viso lessata dal sacchetto di plastica che portiamo in faccia ogni volta che usciamo di casa e il mento deturpato come se avessi limonato con un tronco d’albero, è vero che due primavere senza godere della luce del sole mi hanno lasciato un colorito esangue che mi fa pensare a quella leggenda dei coccodrilli bianchi nelle fogne di New York ogni volta che mi guardo allo specchio, ed è vero che vivere in tuta non fa bene all’autostima, a meno che tu non sia una delle sorelle Hadid. Ma in circostanze ordinarie non avrei dato peso a nessuna di queste cose.

E invece sarà per le ore interminabili passate su Zoom, focalizzata sulle asimmetrie della mia faccia e totalmente incapace di guardare i miei interlocutori, sarà per la crescita esponenziale del tempo che passo su Instagram (luogo infernale e deleterio per l’autostima di molti), sarà perché quando hai troppo tempo libero diventa molto facile concentrarsi sulle cazzate, fatto sta che mi ritrovo a gestire insicurezze prepuberali quando sarei anagraficamente più pronta per la crisi di mezza età.

Senza mascherine

Anche se poi, a dire il vero, sento che sta già per passare. È come ha detto Michela Giraud: un giorno ti senti Beyoncé, quello dopo Magalli. Di questi tempi, mentre camminavo con le sporte del Carrefour e i leggings impataccati a pochi metri dal set di House of Gucci con Lady Gaga, forse era più naturale sentirsi Magalli.

Comunque, dicevamo, tutto questo sta per finire, e verrà sostituito da patemi che mi sono più familiari. Le fisime sul girocoscia sono già superate, cancellate dal ritorno degli aperitivi, annegate in un fiume di gin tonic e calorie vuote. Intanto da lunedì la mascherina all’aperto non è più obbligatoria, il che mi garantirà un mento più sano, ma mi toglierà il gusto di vedere per strada qualcuno che conosco e tirare dritto senza salutarlo.

Fomo

La vita sociale è ripartita e non sono sicura di essere pronta ad affrontarla, soprattutto perché non ne avevo una neanche prima del Covid. Ora invece esco a cena tutte le sere, recupero vecchie amicizie, vado ad addii al nubilato vestita di plastica rosa come Barbie Crisi d’Identità. Mi sono spinta persino a un compleanno a San Siro, dove ero stata solo una volta per un concerto di Bruce Springsteen. Chi mi conosce lo sa: giusto il Boss può convincermi ad uscire dalla seconda circonvallazione di Milano.

Il New York Magazine, a inizio giugno, ha dedicato la copertina al ritorno della Fomo, cioè “Fear of missing out”, la paura di perdersi qualcosa, di essere esclusi dalla socialità. Che è un sentimento che non ho mai capito molto, essendo io più tendente all’ansia inversa: è molto più probabile che mi penta di essere uscita che non che passi la notte insonne a rimpiangere un’inaugurazione di un bar a cui non sono andata. A me, fra l’altro, non mi cerca mai nessuno. Non sono nel giro giusto o nel giro sbagliato, il giro semplicemente non esiste.

Nulla di nuovo

Ciononostante ora ci sono dentro fino al collo e la Fomo è qui per restare, almeno per un po’. Non si tratta solo di tornare a una serie di attività che ci erano più o meno mancate, ma è una vera e propria corsa contro il tempo: dobbiamo recuperare, cancellare mesi di nullafacenza, riempire un’infinità di caselline.

Nonostante fossimo partiti con le migliori intenzioni, in pochi hanno sfruttato davvero il tempo morto di questo ultimo anno. Io per prima non ho scritto un romanzo, non ho letto Guerra e pace, non ho imparato una lingua straniera. Non so fare niente, tanto quanto prima.

In un impeto da Marie Kondō ho giusto svuotato un po’ il mio armadio, ma più che per uno slancio di auto-miglioramento l’ho fatto per un accesso d’ira nei confronti dei pantaloni improvvisamente troppo piccoli e perché non trovavo più la mia tessera sanitaria. Insomma, sono rimasta a galla e poco più.

Tornare a vivere

Ora si sta rapidamente ripristinando una forma di normalità. Tutti quei matrimoni che erano saltati l’estate scorsa, con il sollievo dei più, ora affollano le nostre agende, rovinano le nostre vacanze, e noi corriamo a comprare vestiti da cerimonia, e sfogliamo i carrelli di negozi online riempiti nei momenti più ottimistici della quarantena, se non altro intrigati dall’idea di metterci addosso capi senza coulisse. Facciamo liste di ristoranti da provare, prenotiamo aerei, mandiamo in crash la vendita dei biglietti di Valerio Lundini. FOomo allo stato puro.

In fondo a questa euforia, per quanto mi riguarda, c’è una piccola percentuale di disagio perché da brava blatta quale sono mi ero ormai abituata alle circostanze ostili in cui eravamo costretti. Alla vita isolata, a mettere da parte i soldi, a fare lunghe telefonate più o meno dolenti con gli amici, a cenare alle 19.30 senza vergogna. È un pensiero abbastanza indicibile, perché ovviamente è bello tornare a vivere come persone normali. Ma non ci staremo perdendo qualcosa? 

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