Con le fiction e i documentari, i mass media contribuiscono a modellare le visioni più profonde e durature circa il senso dell’esistere. La fiction sviluppa le mille relazioni fra “personaggi”: maschi e femmine, giovani e anziani, dèi e mortali. Il documentario estrae un senso dalla natura, la spiega sotto forma di racconto, fornisce un bandolo rispetto allo smarrimento generato dal caos fintanto che non si anagramma in cosa.

La fiction è in sé stessa comunitaria e popolare, tant’è che le raffinatissime tragedie greche si radunava il popolo a vederle in assenza di un Game of Thrones o della tv realtà che ugualmente si alimenta ai desideri, alle paure, alle bizzarrie del comportamento umano, attraverso format, come Amici, Stranamore, Cortesie per gli ospiti, Sedici anni e incinta, la Dottoressa Schiaccia-brufoli e così via.

Il documentario si basa sempre su una qualche filosofia della Natura, discende dritto dall’Encyclopédie degli illuministi, dall’empirismo inglese, dal senso pratico dei socio pensatori dell’Italia e contende ovunque il campo alla magia e alla mistica quando aspirano non a farci compagnia, ma a prendere la guida. Gli spettatori decretano il successo di fiction e documentari quando ne vengono coinvolti o dal riconoscere il mondo che conoscono o dal vedersene proporre uno diverso rispetto a un tema che può essere il più vario, dalle dinamiche d’amore al motore dell’Universo tutto intero.

La coppia fiction-documentario è di conseguenza alla base delle scelte produttive dell’industria audiovisiva più rilevante, come quella anglosassone o della Francia e della Cina che ne seguono l’esempio.

L’Italia non c’è

L’Italia, per ragioni diverse e difficili da svelare, è prevalentemente un luogo di consumo di fiction e documentari fatti altrove, ma con una fondamentale distinzione: la fiction italiana pare capace di risalire la china grazie all’esistenza di mentalità e mestieri sopravvissuti al disastro industriale (anni Ottanta) del cinema italiano; il documentario italiano è invece tuttora un genere del tutto trascurato su cui nessuno da noi investe soldi veri. Anzi, quando la tecnologia ha sveltito e disintermediato le procedure tecniche rendendole assai meno care di una volta, anziché reinvestire quel guadagno di produttività in prodotti più complessi si è giocato al massimo ribasso. Il risultato è un piccolo fiorire: del documentario di prossimità che a 7.000 euro a puntata forniscono garbate descrizioni di sagre, paesaggi e monumenti del paese (e per di più, se non ci fosse Geo, anche questi prodotti da discount chiuderebbero bottega); del documentario col conduttore in jeans e giacca a vento che ci porta in luoghi esotici fra immagini da cartolina e grandi chiacchiere che rinchiudono a priori il suo consumo entro i confini dell’Italia. Stanno a parte i documentari colossal, quelli che documentano il mondo e i suoi perché e che costano milioni per appostarsi al pasto dei leoni o per animare i comportamenti delle cellule, per spiegare la teoria della relatività con la pratica e la forza delle immagini fino al punto di renderla intuitiva, per mostrare i meccanismi della biotecnologia come se riuscissimo a navigarci dentro.

C’è chi sospetta che alla radice della micragna finanziaria ci sia l’onda lunga di una qualche micragna ideologica, diffidente nei confronti dell’approccio scientifico al reale. Sicché se in un documentario d’altri la Natura occupa il posto di Dio, la gente, anche quella che bacia il Rosario in un comizio, si diverte, ma non sente intaccate le radici, così come prima del 1971 si godeva dei divorzi nel cinema americano mentre in Italia il divorzio era vietato e se ne parlava soltanto sottovoce. Questo atteggiamento c’è stato, ma è cosa di una volta. In realtà l’Italia è assente dal livello colossal non perché sia prigioniera del creazionismo o roba simile, ma per l’assenza di investimenti adeguati per partecipare a coproduzioni internazionali o addirittura avviare progetti noi per primi.

Come fanno gli altri

La tv pubblica tedesca, paragonabile come collocazione alla nostra Rai, nel 2020 ha speso decine di milioni in coproduzioni di documentari di maggior livello culturale e spettacolare dai quali trae anche veri guadagni nel mercato internazionale. Trentasette milioni spende la Bbc attraverso il suo ramo Natural History Unit, con budget medi di 2,2 milioni di dollari a puntata, che recupera pressoché per intero con le vendite internazionali. Il sistema francese dichiara di investire 100 milioni nei documentari di varia taglia, si spinge anche al campo del colossal e faticosamente sta salendo nella scala del mercato. La Rai è assente dal ramo, però ha istituito una Direzione apposita dotandola di qualche spicciolo per comprare qualche cosa o rielaborare i contenuti d’archivio. Lasciata a sé stessa, senza la guida strategica e gli investimenti del servizio pubblico, la produzione privata batte il passo al punto da attingere solo marginalmente all’incentivo tributario.

Il risultato è che mandiamo in onda cose splendide, talvolta ben presentate ai nostri spettatori, ma prive d’ogni nostra impronta e contributo produttivo, come i documentari di Bbc, di National Geographic e di una qualificata compagnia capace di sfornare il Crispr sull’ingegneria genetica, la serie Cosmos, i prodotti di David Attenborough.

Le leve per crescere

Per uscire dalla attuale condizione di minorità le leve nazionali sono due: l’azienda televisiva pubblica e gli incentivi tributari stanziati dallo stato.

Il loro combinato disposto sta consentendo ai produttori di fiction (cartoon compreso) di scalare i mercati mondiali e nulla impedisce che la cosa possa funzionare anche nel campo del documentario.

Tuttavia non sarà mai possibile che nuove risorse vengano ad aggiungersi puramente e semplicemente agli attuali assetti di sistema e aziendali, fondati sulla dilatazione delle offerte. La ristrutturazione del sistema è la condizione per renderlo protagonista della produzione.

Così tanti palinsesti (ne contiamo a decine fra generalisti, cioè dotati di un notiziario, e tematici) sono altrettante bocche da sfamare che, altro che produrre, usano i ricavi per comprare ed esistere allo stesso modo di uno scaffale al supermercato. Il culmine della follia è costituito dalle testate multiple della Rai con quindici edizioni di tg giornalieri, per dire solo di quelli nazionali 1,2,3 che vanno a scacchiera su tre canali cui si aggiunge un all news disperso al canale 48. In ogni angolo del mondo qualsiasi azienda se la cava con una testata e trasmette al massimo tre edizioni per giornata. Un caso più unico che raro, un vitello non d’oro, ma con tre teste che qualcuno d’oltre confine verrà a documentare per consolare i popoli lontani invidiosi di un paese tutto rose e fiori e dove invece abbondano le muffe che si mangeranno, se non si dota di ramazza e strofinaccio, anche il governo dei migliori.

© Riproduzione riservata