Ogni generazione ha i suoi film cult, la mia ha avuto Sliding Doors. Per chi non lo conosce è un film con Gwyneth Paltrow – alle prime armi nel cinema ma già talentuosa – in cui piccole circostanze del tutto casuali cambiano la vita della protagonista.

Un destino, nel film, appeso alle porte “scorrevoli” di una metropolitana. E un singolare esperimento narrativo del regista che mostra la stessa ragazza in due situazioni diverse: nella prima, quando riesce per un pelo a prendere il treno, arrivando a casa in anticipo e trovando il marito a letto con la ex.

E nella seconda versione di sé stessa, quando quel treno lo perde e viene derubata, cambiando del tutto le sue sorti. «Quanto un evento fortuito ha cambiato la vostra vita?», chiedeva la voce narrante. «Tanto», risponde La rappresentante di lista, la band formata da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina.

Incontro i musicisti in via San Gregorio, a Milano, in un bar davanti al quartier generale di Moschino dove fanno tappa per le ultime prove d’abito. Capelli rosa lui, abito giallo lei, sono tra i big in gara al Festival di Sanremo e la loro canzone, Ciao Ciao, sarà tra quelle che impareremo subito, al primo ascolto.

Dietro di loro hanno un team di donne, a cominciare dalla direttrice artistica di Sony che li ha scoperti, Sara Potente, e la direttrice creativa delle loro performance sul palco, Carolina Stamerra Grassi.

Per loro è la terza volta sul palco dell’Ariston, un obiettivo impensabile quando hanno iniziato a fare musica in modo indipendente, in giro col furgone nei paesi sperduti d’Italia.

«Ma eravamo destinati ad altro», dicono. Ecco le sliding doors. Lei nel bar dei genitori, a Viareggio, a preparare cappuccini. «Sono figlia d’arte, se passi di lì te ne faccio uno col cuore», scherza Veronica. E lui in una corsia d’ospedale, dopo la laurea in medicina. «Poi non ho preso la specializzazione», si giustifica.

Ma qual è stato l’evento fortuito che avrebbe cambiato le vostre vite?

Veronica: Studiavo lettere a Pisa e il mio sliding doors è stato incontrare del tutto casualmente un’amica delle superiori che mi ha invitato a un laboratorio di teatro. Mi sono incuriosita, era vicino casa e ci sono andata. Grazie a lei nel 2011 ho conosciuto il teatro di Emma Dante e una compagnia siciliana per cui ho cominciato ad andare a Palermo.

Dario: E proprio il mio maestro di Palermo mi chiese di passare a prenderla in aeroporto. Veronica si aspettava di incontrare un altro Dario, un amico che aveva conosciuto a Milano durante un altro laboratorio. E non voleva salire in macchina. Quelli che sono seguiti sono stati quindici giorni indimenticabili, a fare prove e dormire in una palestra sperduta della Sicilia.

Si definiscono una Queer band, sottolineando così lo spirito no gender della loro natura. «È un termine straordinario e libero. Ci consente di spaziare tra i generi musicali. E ricordare che certi temi non sono scontati. Lo sono forse negli ambienti di spettacolo, ma nella vita reale no», specifica Dario, che guarda sempre Veronica prima di parlare, come a cercare un’intesa. Sono due amici inseparabili da oltre dieci anni, al punto di scegliere insieme, lo stesso giorno di due anni e mezzo fa, di diventare vegetariani.

«La complicità è cresciuta nei laboratori e si è consolidata nel teatro occupato Garibaldi di Palermo, uno spazio abbandonato nel quartiere difficile Kalza che abbiamo trasformato insieme ad altri amici e restituito alla città. Abbiamo creduto nella condivisione degli ideali, ascoltando gli insegnamenti di Emma Dante, del produttore Roberto Cammarata che consideriamo il terzo elemento della band, e di tanti altri compagni di viaggio. Oggi anche del cantautore Dimartino».

Come vi siete scelti?

V: Mi ha coinvolto la sua capacità di appassionarsi e commuoversi. Ogni volta che qualcosa lo scuote, viene travolto dalle emozioni e mette in moto reazioni potenti e assolutamente reali e tangibili.

Ti viene voglia di proteggerlo?

V: Più che proteggerlo, desidero preservare la sua sensibilità, da non confondere con la fragilità. Vorrei prendermene cura e allo stesso tempo lasciare libera questa meraviglia che ha negli occhi.

Le vostre famiglie vi hanno sostenuti o ostacolati?

V: Abbiamo vissuto momenti forti, ma a un certo punto si sono resi conto che era un’urgenza che si stava scatenando dentro di me e, con timore, mi hanno lasciato andare. Mio padre è appassionato di musica, mia nonna materna ha trasferito a mia madre la passione per l’opera lirica. Ma i miei hanno sempre lavorato nel bar di famiglia, nella passeggiata di Viareggio. E poi, col tempo, si sono trasformati e sono diventati i proprietari di un ristorante. Una vita totalmente diversa da quella che faccio io.

D: Il mio vero bivio è arrivato dopo la laurea, quando ho scelto di non proseguire. Mia madre, professoressa, non condivideva, mi vedeva già medico. E come lei mio padre e le zie. Il futuro era incerto, facevamo tour pagati una miseria. Era difficile comprenderci.

E il nome La rappresentante di lista com’è nato?

V: Per riuscire a votare fuori sede ho fatto la rappresentante di lista a Palermo, nel referendum contro il nucleare del 2011, in una lista civica. Il nome è nato durante un laboratorio, in una vecchia casa di campagna, in cui abbiamo trovato una chitarra senza una corda, senza un “re”. Un po’ per gioco abbiamo iniziato a suonarla e sono nate le nostre prime cinque canzoni. Una di queste raccontava quell’esperienza. È stato un momento decisivo per noi, lì abbiamo capito di essere un duo. E che quel nome era perfetto.

C’è una delusione che ha rischiato di fermarvi?

D: Quando abbiamo provato a entrare a Sanremo giovani nel 2015 e non ci siamo riusciti. Ma in due la delusione dura poco, e se c’è, viene bilanciata dall’altro. Io non resisterei in un progetto da solista.

Avete mai tentato la strada dei talent?

D: Mai.

La scoperta più inaspettata che avete fatto sull’altro?

D: A dieci anni comprai la mia prima cassetta musicale alla festa di Santa Fortunata, nel paese di mia madre, Baucina, in provincia di Palermo. Era quella delle Spice Girls.

V: E anche io, a 10 anni, ho ricevuto in regalo un walkman con dentro la stessa cassetta. È stato per entrambi il primo disco, nonostante non ci conoscessimo ancora.

E come avete proseguito?

D: Io sono diventato un punkrocker a Londra. Il mio primo vero disco è stato Blood Sugar Sex Magic dei Red Hot Chili Peppers, e il mio primo concerto quello dei Green Day.

V: Io subito dopo avrei preso la mia piega rock’n’roll, e quindi spaziavo dai Led Zeppelin a Janis Joplin e non ho più guardato il mondo del pop.

In questa nuova vita, più di spettacolo, avete incontrato qualche vostro mito?

D: Sì, nell’ultima puntata di XFactor, dove eravamo ospiti, abbiamo conosciuto Benjamin Clementine, cantautore di Londra che più volte abbiamo visto in concerto. E abbiamo avuto la fortuna di passare con lui una serata.

V: Parlando del mondo dello spettacolo e di orbite.

È la vostra terza volta a Sanremo: la prima nel 2020, in un duetto con Rancore, e l’anno scorso tra i big con la canzone Amare. Che cosa vi fa più paura?

D: Doversi confrontare col giudizio di milioni di persone. Chi commenta da casa dimentica che su quel palco noi siamo persone. Certe brutture ci colpiscono come delle lame.

Non vi fa più paura stonare?

V: Ci preoccupa meno, è risolvibile.

Che cosa non lo è?

D: L’altro giorno indossavo un piumino rosa e alla stazione di Milano ho ricevuto dei fischi. A Palermo succede se metto una borsa “da donna” e mi indicano. Quella sensazione di noia allo stomaco non passa mai. Esistono diritti inalienabili che valgono per tutti gli esseri umani a prescindere dall’orientamento sessuale, dal colore della pelle, dall’estrazione sociale. Il sogno è quello di raggiungere una normalizzazione, di essere liberi di esprimere sé stessi.

Veronica, tu come ti comporti se ti fischiano?

V: Io sono molto irascibile, divento una furia. E insisto proprio su quella persona sconosciuta, perché è una problematica sua che finisce per toccare me. Rovina la mia quiete, mi mette di fronte a qualcosa che è disumano. E io non lo posso lasciare andare.

Avete mai paura per strada?

D: Certo. Io vivo a Ballarò, un quartiere popolare di Palermo dove il degrado si taglia a fette e parlare di “queerness” fa ridere. È troppo facile farlo sul palco. La scommessa è far uscire la nostra realtà, portarla per le strade e farla muovere nel mondo. È la vera sfida che abbiamo davanti.

Avete seguito l’elezione del presidente della Repubblica?

D: All’inizio, poi abbiamo lasciato perdere. È tutto troppo lontano. Però ho un aneddoto: quando avevo tre anni mia madre mi chiese che cosa volessi fare da grande e io risposi il papa. Ero affascinato da quelle scarpe rosse e da una certa liturgia. Può servire?

 

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