Edwige Fenech, tornata dopo tanti anni al cinema nell’ultimo film di Pupi Avati (La quattordicesima domenica del tempo ordinario, da poco uscito nelle sale) e premiata alla carriera al festival La Settima Arte Cinema e Industria di Rimini, dove l’ho incontrata qualche giorno fa, mi ha detto: «Pupi ha questa facoltà di dare un’opportunità a persone che il cinema non chiama più, o che magari non hanno più voglia di fare questo lavoro. Lui reinventa gli attori, è la sua grande dote».

Qualche tempo fa lo stesso Avati, a proposito del suo tenero film Lei mi parla ancora (2021), mi aveva teorizzato più o meno la stessa cosa: «C’è una pigrizia generalizzata nel cinema italiano, che definisce un attore attraverso un aspetto fisiognomico o un ruolo preciso e da lì non si scosta più. E lo stesso attore è complice e compiaciuto da questa riconferma di essere solo quella cosa lì, senza sapere che dentro la sua cassetta degli attrezzi ha degli strumenti che non ha mai utilizzato».

Premessa necessaria ed entrare, poco dopo, nel merito della scelta di Renato Pozzetto come protagonista di quel titolo: «Pozzetto è arrivato a ottant’anni senza sapere di poter fare questa cosa. Lui non sapeva di poter essere Nino Sgarbi (il suo personaggio nel film, ispirato al padre di Vittorio ed Elisabetta) con un livello di intensità e verosimiglianza così assoluto, e sai perché?

Perché nessuno gliel’aveva mai chiesto, nessuno si era mai immaginato che Pozzetto potesse essere quella cosa lì, come la Ricciarelli o Abatantuono… Questi sdoganamenti, questi arricchimenti nella gamma delle varie tonalità in cui può suonare un attore danno senso al mio lavoro».

Del “pupiavatismo”, ormai un genere a sé nel nostro cinema, fanno parte, oltre agli orrori di provincia, le sliding doors della vita, il jazz, gli amori non corrisposti tra lo sfigato e la bella, le beghine della parrocchia, i ricordi d’infanzia, e in generale una vocazione per il racconto di un piccolo mondo antico, o quantomeno novecentesco, che si spera resti immutato e immutato; ecco, insieme a tutto questo e molto altro c’è il gusto per il “casting against type”, come dicono altrove, cioè la scelta di un’attrice o un attore che mai ci si sarebbe immaginati in quel determinato ruolo; unitamente alla scommessa su nomi del tutto estranei al cinema e che invece ti ritrovi all’improvviso sullo schermo e, spesse volte, alla vera e propria riesumazione (pardon) di altri volti ancora che nel cinema ci erano entrati più o meno da protagonisti per poi finire dimenticati.

Nel cast di questa Quattordicesima notte, insieme a Gabriele Lavia (attore maiuscolo ma certamente più legato al teatro: lo stesso Avati lo aveva diretto in modalità “contro” nel divertentissimo horror Zeder, quarant’anni fa esatti) c’è Lodo Guenzi dello Stato Sociale, che ha studiato da attore e s’è già visto varie volte sullo schermo (Est - Dittatura Last Minute, Criminali si diventa, Improvvisamente Natale), ma che è senza dubbio più noto per la carriera musicale; e Massimo Lopez, in un piccolo ruolo drammaticissimo decisamente in modalità anti-Trio (o Cangurotto di Buona domenica); e ancora, in veloci comparsate, Sydne Rome e Patrizia Pellegrino, volti tra il televisivo e lo stracult certamente non ammessi nel cinema colto (o che si crede tale).

E, ovviamente, c’è Edwige Fenech, che da otto anni non si vedeva sugli schermi (ma piccoli, nella fiction Rai È arrivata la felicità; la sua ultima apparizione al cinema è di sedici anni fa, in un cameo tarantiniano in Hostel: Part II di Eli Roth); e che, a 74 anni incredibilmente indossati, si misura forse con il suo primo vero ruolo di quelli che si dicono intensi, dolenti, à la Pozzetto di Lei mi parla ancora appunto. Edwige è Sandra, “la ragazza più bella di Bologna” che è rimasta tale anche se oramai è un poco sfiorita, e che ritrova sulla strada l’ex amore (Lavia) anche lui travolto dai fallimenti della vita: è il solito personaggio avatiano di aspirante musicista mancato, fallito, forse anche un po’ mitomane, presuntuoso, messo all’angolo da carriera, amicizie, amori.

E anche Sandra/Fenech è mortificata dal destino, rimpicciolita dentro il suo paltò scuro ma con ancora ai piedi i tacchi alti delle donne che sanno portare la loro bellezza. È un ruolo a suo modo struggente, aggettivo che molto spesso si addice ai personaggi che Pupi Avati sceglie di destinare a questi attori ritrovati.

Dramedy

«Quando ai committenti faccio nomi come il suo», ha raccontato Pupi Avati a Che tempo che fa, «ci sono sempre quei quaranta secondi in cui rimangono interdetti, si guardano tra loro e si dicono: “Che faccia facciamo?”.

E invece però poi, grazie al cielo, sono illuminati e capiscono, e approvano il fatto che io abbia ormai detto troppe volte che c’è la fila fuori dai camerini di Favino… ma non l’ho detto per denigrare Favino, solo per dire che certi attori italiani sono molto presenti nel nostro cinema, mentre ci sarebbe una potenzialità (in altri attori) che non viene raccolta e considerata. Una di queste era Edwige Fenech».

L’operazione, per ammissione dello stesso regista, è stata avviata con Carlo Delle Piane, attore partito “alto” e poi finito nella seconda fila delle commedie di Totò e dei musicarelli scelto da Avati per il ruolo del timido, struggente (aridaje) ma mai patetico professor Balla di Una gita scolastica (1983), uno dei titoli più famosi e “seminali” dell’autore bolognese.

L’operazione è poi proseguita appunto con Diego Abatantuono, consacrato al successo popolare nel 1982 dal “terrunciello” di Eccezzziunale… veramente di Carlo Vanzina e, quattro anni dopo, usato in chiave totalmente differente in Regalo di Natale, che ha dato una direzione e una possibilità diverse alla sua carriera; fino alla seconda ripartenza con Il testimone dello sposo (1997), sempre “dramedy” e sempre Avati, arrivato quasi in zona Oscar.

La stessa formula è stata usata con Massimo Boldi in Festival (1996), unico ruolo realmente drammatico (o almeno malinconico) dell’attore, in un’operazione spericolatamente “meta”: Franco Melis, questo il nome del personaggio ispirato a Walter Chiari, è un famoso comico finito in solitudine e senza soldi che viene scritturato per un film in cui per la prima volta può dare prova delle sue doti drammatiche, e con il quale viene appunto invitato a un prestigioso festival di cinema.

Successivamente, la formula è stata riapplicata con Neri Marcorè, al tempo perlopiù maschera comico-televisiva, nel Cuore altrove (2003, dove c’era pure Vanessa Incontrada al suo primo film) e, più avanti ancora, con Christian De Sica, schiacciato dal filotto pur d’immenso successo dei cinepanettoni, nel Figlio più piccolo (2010), in una parte in cui pareva di vedere papà Vittorio.

Tiktoker?

Nel cinema di Pupi Avati trovi Nino D’Angelo accanto a Giancarlo Giannini (sempre nel Cuore altrove), Sharon Stone – unico grosso nome internazionale poi quasi rinnegato dall’autore – con Riccardo Scamarcio (Un ragazzo d’oro, 2014), e ancora Katia Ricciarelli (La seconda notte di nozze, 2005, e Gli amici del Bar Margherita, 2009), Cesare Cremonini (accreditato nel Nascondiglio, 2007, come “l’amico matto” e poi fra i protagonisti del Cuore grande delle ragazze, 2011), fino a ex glorie sexy come, oggi, Edwige Fenech e, prima, Serena Grandi (Il papà di Giovanna, 2008, dieci anni dopo la sua ultima apparizione al cinema, e Una sconfinata giovinezza, 2010).

E, ancora, figure che sono eterni ritorni nel cinema di Pupi Avati e che vengono variamente da televisione, varietà, B-movies d’antan, cabaret: la citata Sydne Rome, Andrea Roncato, Erika Blanc, Gisella Sofio, Chiara Sani, Manuela Morabito, Chiara Tortorella, Eliana Miglio, Paola Saluzzi, Fabio Ferrari, Gianni Fantoni, persino Valeria Marini.

Una grande famiglia del cinema avatiano che quasi solo lì troviamo, un grande clan verso cui il regista non mostra snobismi di sorta, ma solo curiosa umanità. Tra le varie famiglie del cinema italiano – ciascun autore ne ha una di riferimento – quella di Pupi potrebbe da sola scrivere un saggio sul nostro costume degli ultimi quarant’anni, gli anni in cui il cinema s’è sempre più impastato con la tv, cambiando per sempre l’immaginario culturale del nostro paese.

Nella galassia sterminata di volti selezionati, riplasmati, sdoganati, dissotterrati da Avati mancano solo i tiktoker e le nuove star digitali, ma forse sono destinati a restare generazionalmente e culturalmente lontani. E va bene così.  

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