Ci sono due città, ciascuna dominata da una forma di amore. In una, un amore imposto dal sangue e dalle piume, che possono essere più pesanti del piombo. Nell’altra, un amore che è una scelta libera, eppure talvolta gravosa, una sfida che si affronta di giorno in giorno. La città dell’amore famigliare, dove tutti i personaggi sono imparentati tra loro, si chiama Paperopoli. Imparentati ancora più di quanto dovrebbero in teoria. Cugini che, in realtà, si comportano come fratelli. Nipoti che sono figli. Zii che sono padri. Gli unici fratelli che si dichiarano “onestamente” tali sono delinquenti, con tanto di numero di matricola sul petto, e un nonno sul groppone. A proposito, c’è anche una nonna che abita fuori città e, fatto strano, ha come nipote un’oca maschio (un oco: si può dire?) Ci aveva fatto su un monologo Claudio Bisio, qualche anno fa. Ma c'è poco da scherzare. L’ironia, in questo caso, è una faccenda serissima.

Zio Paperone non può non amare Paperino, ma allo stesso tempo nega a lui, e anche a sé stesso, l’ammissione di questo sentimento, che lo renderebbe debole. Paperon de’ Paperoni dovrebbe ammettere la propria umanità, a scapito del cinismo che è il motore dei suoi affari e, quindi, della sua esistenza. Pensate che ha una lista di debiti, che di fatto non riscuote mai, ma sventola sotto il becco del nipote-figlio, per sottoporlo a ricatti morali. E quale genitore non ce l’ha, una lista di debiti, immaginaria eppure sempre incombente, sempre pronta a essere tirata fuori per rovinare i pranzi di Natale?

Paperino è il figlio indegno perché pensa di essere tale. Una profezia autoavverante. Come si fa a reggere il paragone con l’uomo – ma sì, il papero: è lo stesso – più ricco e, di conseguenza, più potente del mondo? A questo punto tanto vale arrendersi e stendersi su un’amaca, a lasciarsi vivere. Ma poi succede che quel “genitore” sceglie proprio quel “figlio”, quando deve farsi accompagnare in una nuova impresa, in un viaggio che si annuncia sempre zeppo di pericoli. Paperone sceglie Paperino, lo vuole al fianco. E non Gastone, benché portasi dietro uno così fortunato sarebbe una scelta più furba.

Ridere e deridere

Tanto meno Paperoga, figuriamoci. Quello è troppo incasinato nella testa, mai uscito da un’adolescenza sballata. Capitano anche figli così. Forse lo sarebbe diventato pure Paperino, se a sua volta non si fosse ritrovato tre gemelli a carico. Oltre che ricoprire il ruolo di figlio indegno, gli toccato quello di padre inadeguato. Quei tre ragazzini ne sanno sempre più di lui. Quando ancora non esisteva Google, avevano già il Manuale delle Giovani Marmotte.

Paperino è praticamente senza amici. Se proponessi alla redazione di Topolino (parlo del settimanale, non del personaggio), una storia che comincia così: «Paperino si reca fuori città per fare visita a un vecchio amico...» Ecco, non andrebbero avanti a leggere il soggetto. Ma quale amico? Ma quando mai, un vecchio amico di Paperino? Per onestà, devo precisare che la storia potrebbe anche passare, a volerlo, a patto di metterci qualche preambolo per spiegare un’amicizia già di per sé strana, in quanto tale.

Le storie ambientate a Paperopoli sono divertenti, fanno ridere. I lettori di ogni età le adorano. Ma non sarebbe divertente essere Paperino. Tutti si riconoscono in Paperino, perché è così bello perdonargli difetti simili ai loro (ai nostri), ma nessuno in cuor suo vorrebbe essere Paperino. Così come nessuno ha mai voluto provare la fame e miseria di Arlecchino o Pulcinella. Qui potrei lanciarmi in una lunga digressione, riguardo a come ridere non sia deridere. Potrei ricordare che l’ironia è, da sempre, uno strumento per tenere gli occhi dei lettori (o degli spettatori) puntati su qualcuno da cui, senza quelle risate, distoglierebbero lo sguardo. Ma non voglio andare fuori strada. Una strada che ci porta all’altra città: Topolinia. Mia amata, perché di amore è fatta. Non è che a lì non ci sia gente imparentata, così come a Paperopoli non è vietato essere amici, tuttavia Topolinia è un posto dove innanzitutto ci si sceglie. Dove regnano l’amore e l’amicizia, sentimenti tanto vicini, in questo caso, che li considero tutt’uno e faccio prima.

Gli amici di Topolino

Nella vita di Topolino (parlo del personaggio, adesso) le due relazioni più importanti sono l’amore per Minni e, soprattutto, l’amicizia per Pippo. Quel Pippo che, con la propria sgangheratezza, bilancia e dunque sbilancia l’equilibrio di Topolino. E lo riporta alle origini. Il Topolino nato alla fine degli anni Venti non era affatto un bravo cittadino, rispettoso dell’ordine e della legge, ma un perdigiorno e attaccabrighe, che gozzovigliava in una periferia degradata e sregolata.

Ma amici di Topolino sono anche il commissario Basettoni, l’uomo del futuro Eta Beta, gli scienziati Marlin e Zapotec, Orazio e Clarabella... i quali, fermi tutti, sono un cavallo e una mucca che si amano serenamente. Le differenze etniche, per così dire, non sono un problema a Topolinia e, per la verità, neppure a Paperopoli. Paperi, gallinacei, cani, gatti e animali antropomorfi assortiti convivono in una meravigliosa incuranza, senza nemmeno immaginare che cosa possa essere una dannata questione razziale.

Non si capisce nemmeno che animali siano, di preciso, tutte quelle comparse con il naso a tartufo sullo sfondo di ogni storia. Canidi, probabilmente.

Ma restiamo su Topolinia: regno dell’amicizia e dell’amore, a conti fatti in quest’ordine. Topolinia e dintorni. Topolino, lui sì, ha iniziato tante avventure andando fuori città a trovare un vecchio amico. Ne ha un’infinità, e nessuno si sorprende.

Le storie di Topolino raccontano l’amicizia anche nella difficoltà di raggiungerla e conservarla. I personaggi litigano e fanno faticosamente la pace. Ci sono malintesi ed equivoci, ardui da chiarire. L’amicizia è un traguardo che, in certi casi, non sarà raggiunto. Addirittura, sarà negato. Sarà impossibile essere amici e, insieme, difficile essere davvero nemici.

Dalla parte sbagliata

Così sono arrivato a parlare di Gambadilegno, personaggio per me così importante che me lo sono fatto tatuare su una gamba. (Per inciso, devo proprio raccontarvelo: il mio psicologo una volta mi ha detto che ci si fa tatuare «ciò che non si riesce più a essere». Mah. La cosa mi ha dato da pensare. Non riesco più a essere Gambadilegno? Vabbè, ma allora chi si fa tatuare un’ancora o una motocicletta? Fatto sta che ogni tanto ci rifletto. Pure in questo preciso istante.)

Quando Topolino nasce, è già insieme a Gambadilegno. Nello stesso cartone animato del 1928: Steamboat Willie. Si affrontano e combattono subito, e poi per sempre. E così uno diventa necessario all’altro. È chiaro che fra loro c’è un legame forte. Ma è odio? Non credo. Di certo, è dipendenza. Ho dedicato tante storie all’argomento. Una, a cui sono molto legato, è intitolata Dalla parte sbagliata, uscita nel 1998. Iniziava con i pensieri di Topolino, in un flusso di coscienza fatto di didascalie. «Lo conosco da tanti anni, ma non siamo mai diventati amici... se lui non avesse perso sempre, io non avrei vinto sempre... si chiama Pietro Gambadilegno, il mio miglior nemico!».

In quella storia, addirittura, Topolino si metteva dalla parte sbagliata della legge, per salvare “Gamba"”, finito in una prigione di un’inventata nazione sudamericana per via di un’accusa ingiusta. Topolino salvava Gambadilegno e poi si salvavano l’un l’altro a vicenda, fino a diventare quasi amici. Sperimentando quella cosa che è alla base di ogni vera amicizia: la complicità. Però alla fine, proprio all’ultima battuta della storia, dichiaravano che «da domani» sarebbero tornati nemici. Perché quell’amicizia avrebbe avuto un prezzo troppo alto. Avrebbe svuotato le loro vite.

Ma allora meglio Paperopoli o Topolinia? La città della famiglia o quella dell’amicizia e dell’amore? Per gran parte della mia carriera, ho preferito Topolinia. I suoi sentimenti mi interessavano di più. Negli ultimi tempi, però, Paperopoli ha cominciato ad attirarmi parecchio, forse perché mi ritrovo padre di due figli già adulti, che devo imparare a sentire lontani.

E la mia città, Milano: che cos’è? È più Topolinia o più Paperopoli? Una città dove ci si sceglie liberamente, ogni giorno, o una dove si è costretti a starsi vicini (e magari volersi bene) dalle circostanze governate dal destino? Pensavo che fosse Topolinia, l’ho pensato a lungo. La città che avevo scelto, e quindi amato, arrivando da solo dalla provincia. Ma in questo strano anno, soprattutto per un paio di stranissimi mesi, trascorsi chiuso in casa senza però sentirmi prigioniero, Paperopoli ha avuto una rivincita.

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