«Il mio sogno era diventare psicologa. Nell’esercito sono stata “Masha Kitash”, un ruolo per sole soldatesse in cui si seguono i commilitoni ascoltando problemi, preoccupazioni, ansie e si cerca di aiutarli anche incontrando le loro famiglie.

Ma durante la leva militare mi sono resa conto che mi identificavo troppo con loro, mi disperavo per le loro sofferenze, a volte piangevo, e questo coinvolgimento non si addice al ruolo di terapista. Così ho concluso che per me fosse meglio occuparmi di personaggi letterari piuttosto che di persone in carne e ossa.

È una responsabilità un pochino minore. E per scrivere serve entrare completamente in sintonia con i protagonisti, sentire la loro coscienza e le loro emozioni come proprie. Anche per questo è molto faticoso».

Terapista di Israele

Zeruya Shalev, autrice di Stupore, romanzo appena uscito con Feltrinelli nella traduzione di Elena Loewenthal e protagonista del Festival della Letteratura di Mantova (7-11 settembre), è stata soprannominata “terapeuta di Israele” per come sa indagare le anime di una società molto divisa che definisce «una famiglia molto disturbata».

Ma nel suo romanzo (e nei precedenti, il più noto è Dolore) il lettore non può fare a meno di ritrovare sé stesso nell’analisi universale dei comportamenti, delle idiosincrasie e delle nevrosi dei suoi personaggi e dei rapporti fra loro (forse anche per questo i suoi libri sono stati tradotti in una ventina di lingue).

«Seguire le sofferenze delle famiglie nel libro e metterle in relazione con la propria esperienza può aiutare il lettore», dice Shalev in partenza per l’Italia. In particolare nel nuovo romanzo si dedica all’indagine di quelle che chiama “patchwork families” (noi diremmo famiglie allargate), e ai tentativi di «trasformare i cocci di due famiglie distrutte in una nuova».

«Le famiglie allargate sono sempre più diffuse, almeno in occidente, e spesso comportano difficoltà relazionali maggiori», dice.

Orfani della triade

Stupore di Shalev consola in parte gli appassionati di letteratura israeliana ancora tramortiti dalla scomparsa in pochi anni di Amos Oz e la scorsa estate di A.B. Yehoshua, che con il superstite David Grossman formavano una triade influente sul piano politico oltre che su quello culturale.

Nel libro Shalev ci riporta alle origini di Israele da un’angolatura nuova analizzando, per la prima volta in forma romanzesca, le vicende del gruppo armato clandestino Lehi. All’epoca del mandato britannico sulla Palestina il gruppo paramilitare combatteva le forze di occupazione inglesi vedendo negli arabi dei potenziali alleati e non mancando di utilizzare metodi spregiudicati e talvolta anche terroristici.

Per questo è rimasto ai margini delle narrazioni dell’epopea nazionale israeliana, lasciando i suoi militanti, fra cui lo stesso padre dell’autrice, assetati di un riconoscimento postumo del loro ruolo nella lotta per la formazione dello stato.

Militanti devoti

Nel libro Shalev scrive che gli uomini del Lehi «si imponevano una vita da cani lebbrosi» e sacrificavano tutto alla causa. «Lentamente ho capito che questa gente può illuminare non soltanto i fatti della fondazione di Israele ma anche il funzionamento di altri gruppi militanti nel mondo e della stessa natura umana», spiega. «In particolare mi interessava recuperare l’esperienza femminile nel gruppo armato, spesso trascurata».

«Sono rimasta affascinata dal livello della loro devozione malgrado sia sempre stata lontana dalle ideologie fanatiche. Queste persone sono anche un souvenir di una generazione israeliana che sta scomparendo, per cui le idee contavano più della famiglia, della dimensione materiale e della vita di tutti i giorni».

C’è anche un elemento autobiografico: «Mio padre ha militato nel Lehi e da bambina mi bombardava con le sue vecchie storie. Io non le ascoltavo ma appena è morto avrei dato tutto per farmele raccontare una volta in più. Forse è un elemento strutturale nel rapporto coi nostri genitori che, quando se ne vanno, dobbiamo rimanere con qualche rimorso, qualche dispiacere».

Paese trasformato

AP

«Oggi si arriva in ritardo per via del traffico, una volta non sapevamo proprio se saremmo riusciti ad arrivare» riflette nel libro Rachel, la vecchia militante del Lehi ossessionata dalla memoria dei commilitoni persi in battaglia a fine anni Quaranta.

La strada fra Tel Aviv e Gerusalemme che era piena di insidie oggi si percorre in mezz’ora di treno. Ecco allora che se da una parte Shalev immerge il lettore nell’epoca della guerra d’indipendenza, indagando il tema della memoria attraverso i reduci della guerriglia, dall’altra restituisce anche un affresco vivido e attuale dell’Israele contemporaneo.

Con le sue arie condizionate sparate al massimo, il suo sviluppo a trecento all’ora capace di sconvolgere i panorami urbani in pochi anni, il sovraffollamento e le aziende tech. Ma anche con le maxi-infrastrutture militari che lo fanno sembrare «asserragliato, nascosto dietro mura e fili spinati», al punto di far sospettare che abbia «perso la fede nella propria giustizia».

«Siamo un paese giovanissimo con alle spalle una storia antica. Tutto va alla velocità della luce e un anno può sembrare un decennio. In 30-40 anni la trasformazione è stata incredibile e questo, insieme allo scarto fra le generazioni, è uno dei temi del libro».

Sull’orlo del vulcano

«Che bisogno vuoi che ci sia di conservare, in un paese che con tutta probabilità non sopravvivrà più di due, tre generazioni?», chiede nel libro Alex alla moglie Atara, architetta specializzata in tutela di dimore antiche. Potrebbe esploderci un vulcano addosso e «sarebbe perfetto per la conservazione», ribatte lei in uno dei tanti dialoghi pugnaci.

Non manca insomma anche Israele come paese isolato, minacciato e sempre in ansia per la propria esistenza. Alla domanda se dopo 75 anni questa percezione non possa essere un po’ superata, Shalev spiega che «è una presenza che comunque aleggia sulla società come un’ombra collettiva», che malgrado la fase storica propizia «incombe sulla vita di tutti i giorni».

Aggiunge: «Io sono cresciuta con quella sensazione di insicurezza». E nel 2004, in seguito a un attentato a Gerusalemme in cui è rimasta ferita, l’ha anche vissuta sulla propria pelle.

«Gli anni degli attentatori suicida fra il 2000 e il 2005 hanno lasciato un segno profondo sulla società», racconta, «hanno messo all’angolo il campo pacifista anche perché sono arrivati dopo un periodo di dialogo e negoziati».

I traumi dei soldati

Israeli police inspect the weapons which were used in a shooting attack by Palestinian gunmen, in the West Bank's Jordan Valley, Sunday, Sept. 4, 2022. The Israeli military said that Palestinian gunmen opened fire on a bus in the occupied West Bank, wounding six soldiers and a civilian. The Israeli military said it apprehended two Palestinians suspected of carrying out the midday attack on a main West Bank highway. (AP Photo/Mahmoud Illean)

L’autrice mette al centro del libro la questione dei disturbi post-traumatici che affliggono i soldati, tanto più attuale dal momento che ormai il numero di suicidi dei giovani nell’esercito israeliano supera quello delle morti in combattimento.

«Solo negli ultimi anni è un problema che viene preso in considerazione seriamente», racconta, spiegando come fosse «un tabù» nella società israeliana più marziale dei decenni scorsi.

«Non separerei questo dato dalla situazione di sicurezza dello stato, che rimane comunque precaria», continua. «Non voglio fare generalizzazioni ma spesso questi casi riguardano giovani con personalità più morbide che fanno fatica a confrontarsi con la durezza delle unità di combattimento. Semplicemente non sono costruiti per un’esperienza del genere», dice.

Il rifugio dell’ortodossia

(AP Photo/Ariel Schalit)

C’è anche chi riesce a sanare il trauma trovando sollievo nella religione. Fra i prototipi della società israeliana descritti abilmente da Shalev – i coloni, il pacifista ideologico, l’araba della cittadina della convivenza Haifa, il giovane con ambizioni militari – il libro offre anche una finestra sul mondo degli ultraortodossi, con le sue norme rigide, la sua chiusura in sé stesso e il suo rifiuto della modernità.

I haredim, come sono noti in ebraico, sono un tema divisivo in Israele per il fatto che studiano invece di lavorare o fare la leva obbligatoria e perché i loro tassi di crescita demografica imponenti sono un punto interrogativo per lo stato.

«Un modo di interpretare le vicende del libro è vedere la scelta ultra-ortodossa come un possibile rifugio per le anime in difficoltà», ammette Shalev.

Nel romanzo ci si imbatte nelle massime e negli aneddoti di Nachman di Breslov, un rabbino e cabalista vissuto fra fine Settecento e i primi dell’Ottocento al centro della mitologia haredi. I suoi racconti «possono sembrare assurdi, senza senso e sconclusionati», dice la laica Shelev, che però da terapista della letteratura non dubita che per certe persone «possano essere motivo di conforto».

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