Come è nato il romanzo Ava Anna Ada? È partita con l’idea di scrivere un libro su un’ossessione amorosa alla fine del mondo? Ha immaginato prima Ava, Ada o la Punta?

Di sicuro non sono partita con l’idea di scrivere un libro sulla fine del mondo, le storie distopiche mi fanno paura, e nel mio primo libro (The Last Days, un memoir sul suo passato fra i Testimoni di Geova, ndr), raccontavo com’era stato crescere pensando che il mondo stesse per finire: l’ultima cosa che volevo era tornare sull’argomento. Ma forse i nostri temi ci scelgono più di quanto siamo noi a scegliere loro.

Anni prima avevo scritto un racconto su una prostituta adolescente, e quello ha gettato le basi per il personaggio di Ava. Mi interessa osservare cosa succede alle persone quando si trovano in un ambiente nuovo, e a un certo punto mi sono fissata con l’idea del trasloco, della ricollocazione – suona come se qualcosa venisse rotto e ricomposto – e quello è stato il punto di partenza per Anna. Mi piace porre domande ai miei personaggi per provare a capirli meglio, comincio dandogli un certo tipo di sensibilità e da lì ricostruisco il resto. Avevo in mente una donna arrivata da poco in questo paesino, e dovevo capire come mai era finita lì e cosa succedeva, per logica, da quel momento in poi.

In un certo senso la Punta nella mia testa è sempre esistita. Sono cresciuta vicino al mare, sono tornata a viverci vicino, da piccola sognavo onde giganti che mangiavano la terra. E sono cresciuta proprio al confine fra Inghilterra e Scozia, c’è uno stretto lembo di terra fra i cartelli che indicano le due regioni, che sembra non appartenere a nessuno. Da bambina, quando ci passavamo, mi chiedevo sempre cosa sarebbe successo se uno avesse costruito una casa proprio lì: ecco da dove viene quella notazione verso l’inizio, «né in Inghilterra, né in Scozia».

Tutti questi elementi si sono amalgamati in maniera spontanea quando ho cominciato a scrivere. Potrei dire che scrivere questo romanzo è stata una forma di possessione.

Il paesino costiero in cui è ambientato il romanzo è minacciato da una grande Onda, e per questo il libro è stato ascritto alla categoria della climate fiction. Il rapporto fra gli esseri umani e il resto del mondo naturale è d’altronde uno dei temi del romanzo. Perché in Ava Anna Ada (Sur) la natura è così poco rassicurante?

Non mi piace il termine climate fiction, e in particolar modo la crescente aspettativa che la cli-fi contenga qualche elemento di ottimismo e speranza, il che, mentre viviamo qualcosa di molto reale e molto presente, mi sembra l’ennesima forma di negazionismo; ma a parte questo, è vero, nel libro il mondo naturale è davvero importante.

Sono cresciuta nella campagna scozzese e penso sia impossibile vivere in un posto del genere e vedere la natura come qualcosa di rassicurante. C’era gente che moriva per incidenti nelle fattorie, pescatori che annegavano, disoccupati che si impiccavano nei boschi: c’era sempre la sensazione che la vita avvenisse altrove. In termini di politiche e di crescita economica, eravamo in genere trascurati e dimenticati. E poi la natura stessa è brutale: fa ciò che le serve per sopravvivere. Volevo che i personaggi del romanzo riflettessero questo.

Ciascuno dei personaggi è per certi versi impegnato in un regolamento di conti con il mondo naturale, il che è un modo per riflettere su quanto ce ne siamo allontanati, ma anche per chiederci se non siamo sempre esistiti a dispetto di quel mondo. Fin dai tempi più antichi, buona parte della nostra esistenza è dedicata a tenerlo alla larga, domarlo, decifrarlo. A volte penso che forse siamo le creature meno adattabili, non veramente idonee alla vita sulla terra né nell’acqua, e per Ava, Anna e Ada è senz’altro così. Le creature intorno a cui ruota il romanzo sono tutte ben equipaggiate per la sopravvivenza: le falene, le patelle, i bruchi hanno doti di adattamento che noi nemmeno ci sogniamo, per questo mi piacciono.

Le due protagoniste fanno volontariamente del male a sé stesse e ad altri, le loro azioni sono spesso indifendibili: e questa mi è sembrata un’interessante alternativa alle tante storie femminili di redenzione. Perché hai deciso di scrivere di due donne così danneggiate e dannose, non avevi paura che risultassero odiose?

La questione delle storie di redenzione per me è importante. Non volevo sentirmi limitata nei temi della mia scrittura né nel modo in cui parlavo delle donne. Se perfino nel campo delle storie di fantasia le donne hanno ancora bisogno di redenzione, quanti passi avanti abbiamo fatto davvero? Ho letto un libro, ultimamente, in cui la ribellione della donna consisteva nell’andare a letto con uno molto più giovane di lei; che la trasgressione femminile ancora si esprima in relazione agli uomini mi sembra un segnale regressivo.

Penso che il nostro attaccamento alle storie di redenzione o la riluttanza a creare personaggi veramente difficili sia un modo di non guardare in faccia la nostra capacità di fare il male, che è enorme. Sono cresciuta nutrendomi della Bibbia e delle fiabe dei Grimm, uno strano incrocio forse, ma che esplorava a fondo la capacità umana di fare del male, anche quella femminile.

Queste fiabe, benché registrate in forma scritta da uomini, sono state tramandate dalle donne: cos’è che le spingeva a raccontare storie così orribili su loro stesse? Credo che le donne siano altrettanto possessive degli uomini rispetto al proprio territorio, ma il territorio femminile è più piccolo, limitato alla sfera domestica, il che rende la nostra violenza più silenziosa, forse più nascosta, ma anche più diffusa e più accettabile.

Noi magari non litighiamo per un pezzo di terra, ma spesso litighiamo su altre cose, conquistando una posizione dominante in base a quanto siamo belle o quanto siamo fertili o quanto siamo devote alla famiglia, a quanto siamo brave. Con Anna e Ava volevo parlare di questo: si amano davvero o sono spinte a distruggere sé stesse e ciò che hanno intorno perché è la dinamica di scarsità e competizione su cui prospera il capitalismo a creare una forza così distruttiva e limitante?

Uno scrittore a cui mi ispiro è Bret Easton Ellis, i suoi personaggi sono irredimibili, e per molti versi quello è l’unico modo in cui si può scrivere un personaggio americano, e forse un personaggio occidentale in genere.

Temevo, sì, che Ava e Ada risultassero odiose, ma è anche vero che avevo già pubblicato un memoir, ed è più facile pensare che ai lettori non piacciano i tuoi personaggi, che pensare di non piacergli tu.

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Penso che i social media basati sulla profilazione degli utenti e su algoritmi di marketing – come «Lo Schermo» nel suo libro – siano in ultima analisi incompatibili con una società democratica: dobbiamo scegliere se vogliamo avere l’una o gli altri. È d’accordo?

Sì, assolutamente. Sia X, che Facebook, che Instagram offrono un sistema sempre più tacito per radicalizzare le persone, spesso fingendo di educarle o di metterle in connessione. Io sono cresciuta all’interno di una setta, quindi certe tattiche mi appaiono molto chiare: e le ho viste usare continuamente, specie su Instagram, con gente che si spacciava per esperta pur avendo pochissima credibilità, e gente che si lasciava ingannare da ciò che vedeva.

Un tempo dicevo, per scherzare, che la prossima guerra mondiale l’avremmo combattuta usando i social media, ma ormai non è più una battuta né una congettura. Ci iscriviamo alle piattaforme senza leggere le clausole contrattuali, e le clausole contrattuali non ci dicono certo che effetti hanno i social media sulla salute mentale, le relazioni, le aspettative o la società: è veramente una rete, una rete ingarbugliatissima. Nel romanzo volevo affrontare questo aspetto. Dopo un po’, trattare la nostra vita come un video promozionale e noi stessi come merci diventa corrosivo. Vuol dire vedere solo il riflesso di noi stessi e del mondo che abbiamo costruito, mentre l’algoritmo continua ad alimentare il mostro, rifilandoci sempre di più la stessa roba.

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