Dovevo essere al quarto o quinto anno di liceo quando per la prima volta lessi Vita, Rizzoli 2003; circa tredici anni fa, quindi. Di quel romanzo sapevo poco: aveva per protagonisti i cugini Diamante e Vita, era una storia di migrazione, aveva vinto il premio Strega. Fu una delle esperienze più esaltanti della mia vita di lettore - la sensazione di avere tra le mani qualcosa di grande quanto un’intera esistenza, se non di più, è tra le più belle della lettura. Come faccio sempre in casi simili, andai in libreria per prendere ciò che l’autrice di quel romanzo aveva pubblicato e che, dagli scaffali, mi chiamava: l’esordio, Il bacio della Medusa, Baldini & Castoldi 1996, con cui era stata in finale allo Strega, La camera di Baltus, Baldini & Castoldi, con cui era stata di nuovo in finale al premio, Lei così amata, Rizzoli 2000. E scoprii Melania G. Mazzucco, una delle più grandi scrittrici italiane; e non solo della letteratura contemporanea. Nata a Roma, nel corso di una carriera ormai trentennale si è dedicata alla narrativa, con più di quindici romanzi, alla saggistica, al teatro, al cinema e all’arte, scrivendo per giornali – Il manifesto, Il Messaggero, il New York Times, El País, Repubblica – e vincendo numerosi premi – dallo Strega, appunto, al Bagutta e al Comisso, dal Vittorini, al Napoli e allo Stresa. Il suo ultimo romanzo è Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne, Einaudi 2024.

«Lavoro sui reperti, raccogliendo detriti come chi passeggia sulla battigia gli oggetti abbandonati dalla marea. Frantumi e cose inservibili: parto sempre da qualcosa di materiale – una cartolina o una fotografia – e da lì, poi, inizia l’inchiesta. Il delitto è l’oblio». Mazzucco, in un’intervista ha raccontato così la sua scrittura. Le chiedo, quindi, perché trova l’oblio spiacevole?

Casualmente nell’ultimo periodo ci ho riflettuto tanto. Sono tornata da poco da un viaggio in India, e lì hanno una concezione della morte molto diversa dalla nostra, o dalla mia. Per loro, di chi non c’è più non si deve mai parlare per lasciar libera la sua anima e permetterle di rinascere in nuova forma (il ciclo del samsara). Per me, invece, è il contrario. Sto tanto con i vivi quanto con i morti – anche quel che in passato è appartenuto ad altri mi parla, e io devo solo ascoltare. L’oblio mi intristisce, sì. L’idea che un’esistenza possa concludersi nel nulla, senza lasciare qualcosa dietro di sé priva per me la vita individuale di ogni significato.

Che fine fa ciò che è dimenticato?

Noi non dimentichiamo niente, in realtà. Viene tutto seppellito nelle profondità di noi stessi, e a volte può persino riemergere – peraltro, in modo doloroso.

Alcune sue protagoniste rischiavano l’oblio, in effetti. Come decide di chi scrivere, a chi dedicarsi?

A questa domanda non so rispondere in maniera razionale. Credo che in ognuna di loro ci sia qualcosa che funziona come una scintilla – che si ricollega, per vie misteriose, a parti molto intime di me stessa. Movimenti interiori di cui ho consapevolezza solo in parte.

Me ne vuol fare un esempio?

L’architettrice. In Plautilla, la protagonista della storia, ho certamente scorto mia madre. O meglio, ciò che sarebbe potuta essere. È stata studentessa di architettura, ma non ha esercitato la professione: negli anni Cinquanta era difficile che una donna potesse ambire a tanto, anzi non era proprio previsto che le donne lavorassero; mio padre aveva visto le donne di famiglia stremarsi di fatica ed era orgoglioso di potersi permettere di non far lavorare la moglie.

L’architettrice è dedicato a sua madre. Il collegamento tra la sua vita e quella di Plautilla l’ha colto? Sua madre, intendo.

Sempre sorridente, sana, la pensavo immortale. Invece mi ha lasciata lo scorso agosto. Il romanzo, dunque, l’ha letto. Era piacevolmente sorpresa che fosse dedicato a lei, ma ha negato di rimpiangere di non essere diventata un’architettrice. Solo pochi giorni fa, riordinando la sua casa, ho trovato in un cassetto la sua autobiografia. Il pensiero di quella vita mancata invece la feriva ancora. L’avevano cresciuta instillandole il dovere di pensare sempre agli altri prima che a sé stessa, ma quando è rimasta vedova si è resa conto di non aver potuto mettersi alla prova, di non aver potuto essere sé stessa.

Ancora su memoria e oblio: qualcosa che le dispiace d’aver dimenticato?

Mi dispiace di non aver prestato tanta attenzione a certe cose, non d’aver dimenticato. Per esempio, non ho mai parlato con mio padre di cosa avesse significato vivere in una dittatura. Nato nel 1927, è cresciuto sotto il fascismo e credevo che fino al 1943 avesse subito il culto del Duce, o dell’Impero. Invece poco tempo fa, leggendo un suo memoir, ho scoperto che anche un bambino può sviluppare, pure solo con l’osservazione della vita quotidiana, degli anticorpi contro la non verità, la retorica, le ideologie aberranti che gli vengono inculcate fin dalle elementari. Una lezione di vita e resistenza di cui potremmo avere bisogno, e mi dispiace non averne approfittato.

Perché non lo fece?

Non so, forse perché da figli dobbiamo prendere le distanze dai genitori. E la sua morte prematura non mi ha dato il tempo di incontrarci da adulti.

Il suo primo ricordo?

Una chiazza di luce. Come un’aureola abbacinante, sul pavimento di una stanza vuota. Mi trovavo nella casa, ancora sgombra, in cui di lì a poco ci saremmo trasferiti, e trotterellavo portando con me il vasino, cercando un buon posto per isolarmi. Ecco, la vidi allora.

Età?

Due anni, credo.

Il primo ricordo di coscienza, invece?

Ero in ascensore con mia madre. Le porte si aprirono e lei uscì, ma io non feci in tempo e rimasi nella cabina, da sola. Ero così piccola da non arrivare alla bottoniera.

Paura?

Stupore. Io non ero mia madre, ma qualcosa di diverso.

Nata e cresciuta a Roma. La casa d’infanzia, quella della chiazza di luce?

Un appartamento qualunque di un condominio nuovo. Con tanti libri, ma senza ampie biblioteche: aveva tre sole stanze. Da un punto di vista economico appartenevamo alla piccola borghesia, da un punto di vista ideologico e per via della precarietà del reddito legata al lavoro creativo di mio padre ci consideravamo senza ceto, come attori e artisti.

Tanti libri, dunque.

Sì, però in gran parte inaccessibili. Erano in salotto, che era anche lo studio di mio padre, e quando la porta a vetri era chiusa l’ingresso era vietato. Significava che lui stava scrivendo, e io e mia sorella nutrivamo un grande rispetto per il suo lavoro, per cui non ci sognavamo neanche, di disturbarlo, entrare o solo bussare alla porta.

La porta a vetri.

Per noi era una soglia importantissima. Cosa che, naturalmente, accresceva il fascino per tutto ciò che c’era al di là.

I libri.

Mi attiravano. Mia sorella è più grande di me di sei anni, quando io ero ancora molto piccola lei la sera poteva leggere assieme ai miei genitori. Loro tre erano parte del mondo degli adulti e dei libri, io no: la fascinazione per quegli oggetti proibiti scattò subito.

Dunque?

Ho imparato a leggere presto. Ma in generale, per via della differenza d’età con mia sorella, ho vissuto l’infanzia come avessi sei anni in più. Imparavo le poesie che le venivano assegnate a scuola, all’asilo la maestra mi affidava le compagne di classe. Mi sono sempre sentita adulta, mi ci hanno sempre trattata, solo col tempo mi sono regalata il piacere di tornare bambina.

Le piaceva?

Per certi aspetti sì, per altri no. Non ero contenta di dover badare alle mie compagne. Quando la maestra usciva e mi chiedeva di controllare la classe fino al suo ritorno, temevo potessero farsi del male. Mi pareva una responsabilità eccessiva e mi dicevo: ho solo cinque anni, e se succede qualcosa? Una di loro aveva una malformazione al cuore, e l’idea che fosse compito mio occuparmi di lei mi metteva ansia.

Ha iniziato in quegli anni a desiderare di diventare una scrittrice?

In quarta elementare in un tema scrissi: da grande voglio essere una scrittrice. Anzi, una grande scrittrice. Mia madre lo ha conservato.

La prima cosa scritta per suo piacere?

In seconda elementare. Una poesia su una leonessa prigioniera allo zoo.

I tratti che lasciavano presagire una scrittrice c’erano già, in effetti.

Forse. Ero una bambina emotiva e ipersensibile e penso sia un tratto distintivo degli scrittori. Anche un fiore calpestato, ricordo, poteva farmi male.

Perché?

Io ero il fiore.

Questa sensibilità è stata una debolezza o uno strumento?

Entrambe le cose. Non mi sono mai saputa proteggere, persino oggi non sono granché capace di farlo e spesso mi sono ritrovata a desiderare di sottrarmi agli altri, e sparire. Ma mi ha anche aiutata, questa sensibilità.

È diminuita, col tempo?

No. Gli anni non mi hanno fatto diventare più saggia.

Cosa crede d’essere diventata, allora?

Più forte.

Ci si sente?

Di sicuro più forte della me trentenne. Soffrivo pure per ciò che non mi riguardava direttamente, poteva uccidermi una frase qualsiasi. Ho sempre avuto la sensazione di vivere scorticata, senza pelle, esposta.

È stata tradita?

Non più di chiunque altro. Delle persone percepisco subito l’intenzione, sono in grado d’intuire cosa sentono veramente, ma non di impedirmi di fidarmi di loro, nonostante tutto, per cui sì, è successo e, immagino, succederà.

Tornando alla sua biografia. Finito il liceo, si iscrisse all’università e negli stessi anni frequentò il centro sperimentale di cinematografia di Roma.

Volevo scrivere, soltanto scrivere. Il cinema fu un’avventura casuale, interessante e divertente. Feci il concorso con un’amica tedesca, dovevo accompagnarla, ma mi convinsi a provare anch’io – lei per il corso di regia, io sceneggiatura. Ma non fosse stato per Lina Wertmüller non sarei entrata: ampliò a otto i posti disponibili – io ero arrivata settima… Però la consideravo un’esperienza di passaggio, un apprendistato. Pensavo: invento delle storie, vendo dei soggetti, guadagno qualcosa per mantenermi e, nel frattempo, scrivo il mio romanzo. E in effetti è andata così.

Le piaceva?

Sì– dicevo: era interessante e divertente. Ho avuto la fortuna di conoscere e di collaborare con grandi personalità del cinema italiano del Novecento. Ma io avevo il culto della letteratura, e in quel mondo mi sentivo ospite. Spesso poi mi proponevano di rivedere i dialoghi dei personaggi femminili, e mi sembrava riduttivo.

Cioè?

Non c’erano tante sceneggiatrici; allora pensavano che una ragazza potesse rendere più credibili le donne delle storie scritte da uomini.

In quel periodo stette anche male.

Intorno ai 26 anni sono crollata, sì. Avevo finito di scrivere quello che sarebbe stato Il bacio della Medusa, ma non succedeva niente. Non trovavo un editore disposto a pubblicare il romanzo, mi sentivo esclusa: avevo sempre pensato che nella vita avrei potuto fare qualsiasi mestiere, ma mi sbagliavo e, dolorosamente, lo capii. Una sola vita era davvero la mia, le altre sarebbero state vite in maschera – e in prestito.

Così?

Non volevo fare più niente. Solo stare a letto, al buio. Non uscivo, non vedevo nessuno.

Fase depressiva?

Non lo so, forse. Non ci fu alcuna diagnosi – all’epoca se ne parlava poco. La luce del sole era il mio vero problema. Sono sempre stata una lucertola, ma non sopportavo più di avere il sole addosso, sulla pelle. Mi sono comprata un ombrellino di seta a pois in un mercatino d’antiquariato, per uscire nelle belle giornate.

Per quanto andò avanti?

L’astenia qualche mese, la fotofobia tre anni. Poi, un giorno, semplicemente, mi resi conto che era passato.

L’esordio però arrivò, e fu finalista al premio Strega – e allo Strega, poi, sarebbe tornata: finalista con La camera di Baltus, suo secondo romanzo, e vincitrice con Vita, il quarto.

Il bacio della Medusa era un romanzo anomalo. Fui fortunata, alcuni scrittori e scrittrici, ma soprattutto i lettori, mi accolsero con benevolenza; era, quella, un’epoca felice per l’editoria.

Cosa intende per romanzo anomalo?

Dai giovani ci si aspettava un tipo di letteratura diversa. Erano gli anni del minimalismo e dei Cannibali e io ero lontanissima da quel genere di narrativa.

In molti quando fu pubblicato quel libro lodarono la sua giovane età però in Vita lei scrisse che non lo sapeva, cosa volesse dire esser giovani.

Il romanzo, come dicevo, era anomalo, e anomala mi sentivo anch’io. Tanto diversa dai miei coetanei non solo per la scrittura, ma anche per il tipo di esperienze.

Si sentiva un’anomalia?

Mi ci sono sempre sentita.

Oggi?

Per certe cose sì.

E?

E va bene.

Non è mai stato motivo di sofferenza?

Sinceramente no. Essere diversa funzionava come uno scudo protettivo. La bimba in ascensore– quella che, rimasta sola, capì di essere – non ha sempre avuto vita facile, okay, ma è sempre stata fiera della sua autenticità.

I doni sono casuali e rivelatori, non bisogna rifiutarli, scrisse in Vita. Però aggiunse che sono una nostra responsabilità. Si è presa buona cura dei doni che le sono stati fatti?

Credo – e spero – di sì. Mi è stata data la possibilità di essere indipendente, e l’ho colta – penso sia il dono più grande, la libertà. Quando mi iscrissi al liceo e lo dissi alla mia nonna materna, lei si congratulò con me, era contenta, ma piangeva. Cappellaia, ha avuto una vita piena e felice, ma non la vita che avrebbe voluto per sé. Avrebbe voluto studiare, però non poté. Ecco, allora capii che ciò che davo per scontato non lo era. Era un privilegio e, appunto, un dono.

Scrittrici che l’hanno particolarmente influenzata? Che nel suo percorso di formazione, autoriale e personale, hanno avuto ruoli importanti.

Poetesse, più che altro. Le russe Marina Cvetaeva e Anna Achmatova – sia per i versi sia per le esistenze eroiche che, in modi diversi, hanno entrambe vissuto. Poi Juana de la Cruz, Emily Dickinson, Sylvia Plath e Anne Sexton. Fra le narratrici Madame de Sevigné, le Bronte, Alcott, Eliot, e del Novecento Selma Lagerlöf, Marguerite Yourcenar, Marguerite Duras, Ingeborg Bachmann. Ma la mia formazione letteraria si è basata sul canone maschile. Una deformazione che ho subito, senza averne consapevolezza: tante autrici le ho scoperte dopo aver già scritto i primi libri. Le italiane, per esempio: Bellonci, Cialente, De Cespedes. Ma anche Kate Chopin, Edith Wharton, Toni Morrison. Per questo – da scrittrice – mi sono dedicata a valorizzare il lavoro intellettuale e artistico delle donne.

Il cinema, l’arte, il teatro, la letteratura. Mazzucco, si è occupata di tante cose. Lei è stata tante cose. Proprio come Diana Karenne, protagonista di Silenzio.

Forse a chiamarmi a lei è stato proprio questo: il suo esser stata così tante, e diverse, persone. Mi piace, e mi affascina, l’idea che una vita realizzata e compiuta lasci il posto a una nuova esistenza da inventare tutta daccapo.

Dal romanzo, però, viene fuori una donna anche molto sola.

L’ha patita, la solitudine. Soprattutto verso la fine.

Il suo rapporto con la solitudine?

Sono stata da sola nell’adolescenza. E nei miei vent’anni, viaggiando per conto mio, ma per il resto non tanto. Gli altri mi arricchiscono.

La solitudine la spaventa?

In questa fase della vita no. Sola sto bene.

Mazzucco, questa domanda è l’ultima, e la faccio a tutti e tutte. Immagini d’avere ottant’anni, che sia una domenica mattina. Dov’è? Con chi? Cosa fa?

Posso dirle quel che non vorrei?

Prego.

Ritrovarmi sola e con un corpo che non mi sorregge più. Con poche relazioni, chiusa in casa perché impossibilitata a uscire dalla vecchiaia, o dalla malattia. Pochi affetti attorno, ché molti sono ormai morti. Il telefono che squilla di rado, magari solo quando mia figlia vuole sincerarsi che stia bene. Sì, ecco, questo non lo vorrei.

Non c’è niente che desideri?

Da bambina, ho conosciuto un’anziana eccentrica e diversa dalle altre donne della sua età. Ogni mattina, in inverno e in estate, indossava il costume e scendeva agli scogli, quindi si tuffava e nuotava verso il largo. Ammiravo la sua noncuranza per lo sguardo degli altri sul suo corpo sformato dal tempo. E mi piacerebbe essere come lei: libera.

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