Nonostante il dibattito sul divario di genere all’interno del sistema dell’arte sia stato avviato con forza ormai mezzo secolo fa, ancora oggi la presenza delle donne nella narrazione della storia dell’arte continua a essere minoritaria e trattata in modo insoddisfacente. Sebbene in diversi casi ricerche e studi abbiano dimostrato che alcune artiste hanno contribuito significativamente allo sviluppo di taluni movimenti, accade spesso che queste protagoniste rimangano nell’ombra.

Eppure negli anni Settanta le mostre che hanno tentato di reinserire le artiste nella storia dell’arte sono state diverse. Uno dei primi esempi fu l’esposizione statunitense Women Artists 1550-1950. Si tenne al Brooklyn Museum di New York nel 1976 e fu organizzata dal Los Angeles County Museum of Art, a cura di Ann Sutherland Harris e Linda Nochlin. Si trattava di una prima vasta ricognizione che presentava le opere di pittrici che avevano operato in un arco temporale di quattrocento anni. Per quanto riguarda l’Italia invece fu seminale L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940 curata da Lea Vergine nel 1980 a palazzo reale a Milano. La mostra riportava alla luce l’opera di 114 artiste che parteciparono attivamente alle avanguardie storiche dell’inizio del Novecento.

Regina

Per quanto possa sembrare un problema superato, le ricerche, la conoscenza e la percezione effettiva che molti hanno della storia dell’arte dimostrano che questo lavoro di riscoperta non si è purtroppo esaurito ed è tutt’oggi urgente e necessario. Scorrendo molti testi (scolastici e addirittura universitari) dedicati allo studio della materia si evince infatti che ancora nel presente molte delle artiste che hanno avuto un ruolo nei processi di sviluppo dei linguaggi artistici e visivi, anche in tempi più recenti, spesso vengono dimenticate della narrazione storica.

Regina Cassolo (1894-1974) ne è un esempio. Scultrice raffinata che ha attraversato l’avanguardia futurista e ha preso parte al Mac (Movimento dell’arte concreta), l’artista (nota col solo nome di Regina) partecipò a ben quattro edizioni della Biennale di Venezia e a due della Quadriennale di Roma. Le sue opere del periodo futurista, realizzate attraverso l’assemblaggio di fogli di latta e alluminio, incarnano la leggerezza e la smaterializzazione della scultura, in una sintesi delle forme che giunge, negli anni Cinquanta, nell’ultima fase della sua ricerca, all’astrazione.

Regina, già presente nella mostra di Lea Vergine del 1980, è rimasta una figura poco nota al di fuori della cerchia degli specialisti, ma oggi una retrospettiva curata da Lorenzo Giusti e Chiara Gatti presso la GAMeC di Bergamo (fino al 29 agosto) ne ricostruisce la vicenda professionale, mentre una mostra aperta presso il Centre Georges Pompidou di Parigi la annovera tra le fautrici dell’astrattismo.

La mostra parigina curata da Christine Macel, dal titolo Elles font l’abstraction (aperta fino al 23 agosto), dimostra che le astrattiste sono molte più di quante siamo abituati a pensare. L’elenco è lunghissimo, infatti in questa collettiva sono state raggruppate le opere di più di 110 artiste dalla nascita dell’astrazione agli anni Ottanta. Oltre alle già conosciute Sonia Terk Delaunay e Sophie Taeuber Arp, vi sono state figure come quella dell’inglese Georgiana Houghton, che già tra il 1861 e il 1871 iniziò a realizzare i primi disegni non-figurativi ma che è stata internazionalmente riscoperta solo nel 2015. Oppure ancora Hilma af Klint che dipinse il suo primo lavoro astratto nel 1906 e che (anche per sua stessa volontà) non venne riscattata fino agli anni Ottanta.

Surrealiste

Anche il Surrealismo ha visto un’importante partecipazione femminile e, benché vengano sempre menzionate le solite celebri Meret Oppenheim e Frida Kahlo, le artiste surrealiste furono numerose. Tra queste per esempio vi sono Eileen Agar (1899-1991), Claude Cahun (1894-1954), Ithell Colquhoun (1906-1988), Edith Rimmington (1902-1986) e molte altre. Di questo si occupa una mostra attualmente in corso presso la Whitechapel Gallery di Londra. L’esposizione, dal titolo Phantoms of Surrealism (aperta fino al 12 dicembre e a cura di Nayia Yiakoumaki) rivela una serie di figure femminili che furono cruciali (non solo artiste, ma anche organizzatrici, editrici ecc.) nella realizzazione della London International Surrealist Exhibition del 1936.

Non a caso il progetto espositivo parte da una performance di Sheila Legge che, ritratta in foto durante una sua performance del 1936, vestita di bianco e con la testa ricoperta di rose rosse, divenne immagine-icona della collettiva surrealista di quell’anno.

Contro la ghettizzazione

Ma, per quanto incredibile, la macchina dell’oblìo non è stata azionata solo prima degli anni Settanta. Un caso emblematico è quello di Laura Grisi (1939-2017). Artista attiva e internazionalmente nota, che nel corso della propria vita ottenne riconoscimenti importanti, è in seguito caduta dentro a una sorta di inspiegabile vuoto di memoria collettivo.

Si tratta di un’artista che non è possibile etichettare ma che ha attraversato con intelligenza l’arte del secondo Novecento, misurandosi con la Pop Art prima e con l’arte concettuale poi, utilizzando la fotografia (suo mezzo prediletto), la pittura, il video e l’installazione. Laura Grisi è arrivata a creare degli ambienti spaziali immateriali realizzati con la nebbia, ha condotto operazioni metodiche, come il tentativo di invertire l’unidirezionalità del tempo, ma anche consapevolmente fallimentari, come quella di contare i granelli di sabbia di una spiaggia.

Oggi la sua ricerca degli anni Sessanta e Settanta ci viene restituita attraverso una mostra al Muzeum Susch in Svizzera (fino al 5 dicembre 2021) a cura di Marco Scotini, cha già in passato si è occupato di arte e femminismo. All’interno di questa riflessione quest’informazione non è secondaria, poiché introduce un altro argomento, cioè quello di chiedersi (come accade per esempio nella recente discussione sull’arte afroamericana negli Stati Uniti) chi abbia il diritto e la capacità di approfondire certi temi.

Se il dibattito attualmente aperto negli Stati Uniti porta per esempio a far sì che a occuparsi di arte afroamericana siano soprattutto curatori afroamericani – forse più in virtù della logica di facciata che di un autentico pensiero inclusivo – nel caso della questione di genere in arte sappiamo che agli albori della discussione questo tema fu appannaggio di studiose donne. Il fatto che però oggi in Europa a ricostruire la carriera della Grisi sia un curatore è un segnale doppiamente positivo.

Non possono e non devono essere solo le storiche e critiche d’arte a occuparsi di artiste perché questo provocherebbe una ghettizzazione, come è stato sostenuto da più parti negli anni. Sono state certamente loro ad aprire la discussione e il fatto che questa oltrepassi i confini “dell’altra metà” dell’arte non fa che confermarne la centralità. Non servono storie dell’arte parallele, ma una storia dell’arte inclusiva. Che il recupero storiografico delle artiste non sia più una prerogativa femminile significa che sono stati fatti degli importanti passi avanti.

Il riposizionamento delle artiste nella storia ha un valore culturale enorme, e non semplicemente di mercato come spesso erroneamente si crede, ed è ancor più importante evidenziare quando questo lavoro viene avviato in modo simultaneo da più parti. Se coltivata questa rinnovata presa, o per meglio dire ri-presa, di coscienza può condurre a quell’auspicato cambiamento di paradigma culturale per cui nell’immaginario collettivo l’artista non sia implicitamente inteso come un essere umano bianco di sesso maschile.

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