Quando alle feste delle scuole medie si cominciava a ballare, trascinati dal caos della tempesta ormonale, a un certo punto, a prescindere dall’anno e dal luogo in cui ci si trovava, partiva il Gioca Jouer. A dodici anni non avevo idea di chi fosse l’inventore di questa marcia diabolica che ti obbliga a riprodurre in modo triviale attività di vario tipo, sapevo solo che quando un animatore o un dj decideva che era il momento di dormire, autostop, saluto, nessuno poteva sottrarsi alla chiamata. Non so se ancora oggi alle feste di compleanno dei dodicenni esiste il momento del Gioca Jouer, ma so che le coreografie ridotte a una gestualità elementare, balletti da poter fare fermi in un’unica posizione, sono il cuore pulsante del social per eccellenza della GenZ, Tik Tok. E so anche, a distanza di un po’ di anni da quei momenti di grande imbarazzo e confusione che nascevano alle rare occasioni mondane che si concedono ai preadolescenti, che la mente dietro la parata del divertimento anni Ottanta è Claudio Cecchetto.

It’s a Claudio Cecchetto’s world and we’re just living in it, potremmo dire prendendo in prestito una frase di Twitter che si usa per descrivere la centralità di alcuni personaggi. Non possiamo dire che Cecchetto abbia inventato Tik Tok, anche se ci è andato vicino, ma possiamo tranquillamente dire che si è inventato la televisione contemporanea. Poco contano le polemiche – seppur succulente, sarebbe da farci un documentario a parte – nate dal botta e risposta triangolare tra Linus, Cecchetto Senior e Cecchetto Junior, il giovane creator Jody, sul documentario Rai People from Cecchetto. Linus, attuale sovrano in carica di Radio Deejay, dà del fesso al collega, il figlio interviene facendo notare l’importanza del lavoro del padre, il padre si dice fiero del proprio figlio, e noi spettatori vorremmo solo sapere tutti i dettagli di questa faida radiofonica che rimane sospesa nell’etere.

Le sue scoperte

Il senso del documentario, al di là degli ascolti, delle critiche, delle frecciatine, non sta tanto nel prodotto in sé, che sembra indugiare su una narrazione piuttosto fiabesca dell’universo cecchettiano nel pieno del suo splendore, escluso qualche dettaglio sulla sua rigidità nei confronti delle sue risorse artistiche – talent, diremmo oggi. La parte davvero interessante di People from Cecchetto è la presa di coscienza che avviene mentre lo si guarda: la televisione italiana, nel 2024, è fatta della stessa materia di cui è fatto il sogno di Claudio Cecchetto. E ci sono voluti quarant’anni affinché questo progetto diventasse un impero solido ma silenzioso, formatosi grazie a un soft power dell’intrattenimento che agisce con calma, una goccia che scava la roccia del palinsesto. A partire da Carlo Conti, che nelle immagini di repertorio appare meno abbronzato, con più capelli, ma già adulto, sia nel modo di fare il disc jokey che in quello che vediamo oggi in tv, quando la prima serata di Rai1 diventa un tripudio di trucco prostetico e cover sbilenche cantate con risultati più o meno stranianti. Il suo Tale e Quale è un trionfo di ascolti, così come i format che si rimbalza con Amadeus, da Affari tuoi alla patata bollente per eccellenza della televisione di Stato, il festival di Sanremo. Anche Amadeus, come Conti, è uguale al sé della versione Cecchetto: a parte qualche protesta per il nome scelto dal produttore, Amadeus ragazzo, con i capelli rossi e i cappellini fluo in testa, ride in tutte le inquadrature in cui appare. Paziente come un bravo papà ma incline al divertimento come un fratello maggiore che osserva tutte le scemenze fatte dal fratellino senza perdere mai il filo dell’attenzione, Amadeus è un presentatore-spettatore perfetto. Tra gli scivoli acquatici di Riccione si scompiscia ad ogni battuta di Fiorello, mentre la coppia che si è caricata sulle spalle il peso di una kermesse senza pubblico in piena pandemia prende forma.

Ama e Fiore, Cip e Ciop, uno che dice che non si fa, l’altro che fa fin troppo, uno che dà una regola e l’altro che la infrange. Tutte le volte che appare Fiorello in People from Cecchetto sembra come se stesse scendendo in campo il Michael Jordan dei Chicago Bulls nel 1998. Nell’atmosfera ridanciana del riflusso anni Ottanta, tra camicie colorate, inni all’american life, paninari – rappresentati dal paninaro per eccellenza, Jovanotti, anche lui arruolato nell’esercito di Cecchetto – e reti private che sfidano i colossi del pubblico, Fiorello la fa da padrone. Spavaldo, forgiato da anni di villaggi turistici – «Sono un maranza», dice alla telecamera – non c’è microfono che non voglia puntato addosso per dire qualsiasi cosa, tanto farà comunque ridere, esattamente come nel gabbiotto di VivaRai2 quarant’anni dopo Radio Deejay. Parallelamente, dal Psi con furore, giusto per restare in tema edonismo reaganiano e glorie craxiane, Cecchetto porta sulla sua nave di grandi talenti anche Gerry Scotti, e la cinquina dei colossi della tv è al completo. Manca solo Fabio Volo, che con grande sorpresa, più che a tv e radio, sarà all’editoria che strapperà i migliori successi.

E dopo?

Non so se alle feste di compleanno degli adolescenti mettono ancora il Gioca Jouer ma so per certo che gli ascolti televisivi, nel 2024, sono nelle mani di questi fantastici cinque. La domanda che mi resta in mente una volta finito People from Cecchetto però non è tanto quanto intuito serva a capire chi sono i talenti giusti su cui puntare, che pur è un interrogativo legittimo, visti i risultati. Mi chiedo, c’è stato un altro Cecchetto dopo Cecchetto? Cosa ne sarà della televisione quando Amadeus, Carlo Conti, Fiorello, Gerry Scotti, ma anche Maria De Filippi, Mara Venier, Fabio Fazio, saranno su un’isola deserta a godersi la meritata pensione? Sono loro che devono tutto alla televisione o è la televisione che oggi deve tutto a loro, in piedi per miracolo, in equilibrio, come un castello di carte dove non ci sono semi, ma solo Jolly. Un bel gruppo di Jolly che sta insieme, in un modo o nell’altro, da quarant'anni.

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