Luca Carboni sta guidando l’automobile quando risponde alla mia telefonata. Risolto un quanto mai contemporaneo problema tecnologico (echi, larsen, sei in muto, non ti sento e la solita tiritera che ci affligge da un anno) mi dice che vorrebbe fermarsi a bere un caffè al prossimo bar, ammesso sia aperto – tanto lo dovrà portare in auto. Se ce l’avessero detto, non ci avremmo creduto. Caffè d’asporto. Obbligatorio.

Lo invidio, però. Vorrei anche io guidare su per l’Appennino bolognese. Luca mi chiede dove sono io; a Milano gli dico e finalmente gli alberi dalla finestra s’inverdiscono, cosa che mi dà sollievo. Ma lo invidio lo stesso.

Guidare. Bello guidare! Quando guido da solo a lungo mi vengono quelle che sembrano buone idee…

Guidando riascolto i miei provini e capisco se son buoni. Anche in questo periodo nel quale sto scrivendo canzoni nuove. Il momento della verità per me arriva quando le ascolto in auto; ti accorgi dei difetti e aggiusti il tiro.

È una cosa che ho sempre fatto, verificare quel che ho registrato guidando; naturalmente vado piano, è una guida contemplativa che mi permette di avere un certo distacco tra il guardare fuori e ascoltare qualcosa che è dentro di me. La distrazione della guida può essere un posto molto intimo ma ti aiuta a capire, anche ad esempio in base alla luce che c’è fuori, se quello che hai scritto è un pezzo diurno o notturno, contingente o necessario. Mi spiego?

Direi di sì. È una immagine perfetta del tuo lavoro. Penso che tu sia una specie di intimista realista, porti la tua intimità, melancolia, sensibilità a confrontarsi col mondo fuori. Silvia lo sai! Ho sempre pensato a quel verso, che arrivava a bruciapelo in una canzone d’amore, come a una coltellata della realtà. Cosa deve sapere Silvia? Che Luca si buca ancora. Avevo quindici anni e in una canzone d’amore irrompeva brutalmente la realtà quotidiana, una realtà che tutti avevamo vicino.

Sì, è così. Ho sempre cercato di mettere a confronto il mio mondo intimo con la realtà. Nelle mie canzoni entra continuamente lo sguardo sul contesto anche se al tempo stesso la scintilla si accende da una visione distaccata.

Mi ci ritrovo perfettamente, la mia unicità o l’apporto che ho dato alla canzone, credo sia forse è proprio quello dici. Come diceva Picasso la cosa più difficile è essere capiti, ancora più difficile capire sé stessi.

Ah beh, quello è al di là della mia portata. Non mi capirò mai. E comunque tu non devi capirti perché usi i versi come modalità di espressione, come un poeta, il resto è lavoro per gli altri. Poi non pensare di cavartela così, mi piacevi segretamente ma mi stavi anche sulle palle perché ogni mia fidanzatina era innamorata di te…

Ah, sì anche i giornalisti del tempo ce l’avevano un po’ con me per questo, ma io ero innocente! Anzi, non era facile quell’esposizione improvvisa, il successo…

Certo, certo, ma a me frega niente dei giornalisti, qua parliamo di adolescenti gelosissimi e addolorati. Tu e Simon le Bon. Che odio. A me il tuo disco dell’87 piacque moltissimo però non potevo dirlo alle ragazze… vabbè. Parlavamo del rapporto tra intimismo e realtà; c’è un’altra cosa che ho sempre sentito nei tuoi pezzi e nella quale mi sono riconosciuto. Un tentativo di tenersi la paura vicino, di provare ad addomesticarla e renderla parte di sé.

Io sono sempre stato molto timido e molto insicuro e le mie fragilità sono state la chiave d’accesso principale alla scrittura dei pezzi. Forse per esorcizzarle, forse perché le leggevo come non più solo mie, le vedevo riflesse nella società, nella mia generazione. Ho sempre scritto partendo dalle fragilità e dalle paure.

Questo mi ha reso cosciente del fatto che i tuoi problemi non sono solo tuoi, sono di tanti come te, un momento di empatia, una porta che si apre verso gli altri. Io da ragazzo sono stato inquieto, non sono stato bene ed è stato proprio raccontarlo che mi ha aiutato. Poi dopo il successo, entrare nel mondo dei grandi, di colpo, entrare in un mondo molto complicato come quello della musica, essere popolare, riconoscibile e riconosciuto per strada, non poter quasi più avere una dimensione intima, è stato un trauma in più. Da un lato ha mitigato le insicurezze, dall’altro le ha amplificate, ovviamente.

Infatti anche quando hai scritto pezzi con un “tiro” apparentemente più leggero, usando parole classiche da hit pop, dentro c’era sempre e comunque la malinconia o addirittura tristezza tout-court…

Sono anche stato allegro, ma sempre ironicamente allegro – per esempio un pezzo come Fisico bestiale è così. Devo dire che le canzoni leggerissime, che ho anche amato, ecco, per stare sull’attualità, La canzone leggerissima di Colapesce e Dimartino a Sanremo era carina, per essere letterali, ma in linea di massima la canzone che non ha dentro un po’ di dolore mi passa e mi va via; non mi colpisce e non mi ferisce. Sono molto sensibile all’aspetto che definirei malinconico più che triste.

Mi ricordo che Lorenzo Jovanotti disse in una intervista che avrebbe voluto fare «tutto meno la tristezza che mette Carboni». E io dicevo, ma cazzo, io non sono triste! L’ho cercato per parlarne e siamo diventati amici. Penso che poi abbia cambiato idea e infatti abbiamo fatto un tour bellissimo insieme. Però in effetti a molti è arrivata la tristezza come mia cifra, ma penso che in una canzone senti quello che sei più predisposto a sentire.

Le canzoni ti aiutano a tirar fuori il tuo sentimento del momento. Comunque, alla fine, tu non sei affatto triste. Oltre che intimista realista, sei romantico malinconico.

Sì, sì, sono assolutamente un romantico.

Bene, allora ascoltami. In questo momento stiamo vivendo dei tempi che non sono tristi né malinconici ma semplicemente depressi. Questo tempo sospeso ha portato via la malinconia, sostituita da una tristezza immobile e improduttiva. La malinconia è un moto dell’animo, la depressione è una stasi. Io avevo smesso con la vita sociale da un po’, però adesso che non ho la possibilità di non andare a una festa, ecco, mi deprime non poter non andare a una festa.

Sì, ti capisco. Il primo lockdown l’ho vissuto in modo abbastanza depresso, non mi sembrava possibile e nemmeno immaginabile vivere una situazione del genere. L’ho sofferto tantissimo. Poi quest’estate sembrava che ne fossimo usciti. Quest’autunno invece è cambiato tutto, non ho mai scritto tanto come in questo periodo, perché mi aiuta a sognare, a trovare, almeno personalmente, una via di uscita, che non lenisce il dolore per la situazione sociale e psicologica, ma mi tiene vivo. Anche perché sono sicuro che anche quando questo momento che stiamo vivendo sarà superato, non ce lo metteremo alle spalle velocemente.

Questa tragedia ha innescato paure ancora più grandi, intolleranze, sfiducia verso gli altri. Non saremo “come prima”; soprattutto per le nuove generazioni è una roba da strizzacervelli! Un bambino che non può giocare, non può abbracciare un altro bambino o un ragazzo che non può uscire, non può innamorarsi… gli è preclusa la parte fondamentale della vita. Ma anche per noi è veramente violentissimo. Io ne ho tratto però la spinta a cercare un nuovo mondo sia interiore sia musicale, un nuovo modo di raccontare. Sto buttando giù tantissime canzoni, o meglio tantissimi appunti, poi tirerò le somme. La sofferenza per me è ovviamente anche il non poter suonare, oltre alla tragedia che riguarda gli aspetti economici, rispetto al nostro mondo. Io mi auguro che il governo prima o poi faccia davvero qualcosa, ci sono i miei musicisti che stanno cercando altri lavori, alcuni lo trovano altri no, è una cosa devastante. L’arte, che poi è comunicare col mondo, mi offre una via di fuga, sono abbastanza contento di quello che sto facendo in questo momento dal punto di vista musicale però naturalmente mi sento in grande sofferenza per tutto il resto. Poi io dipingo anche, la primavera scorsa mi era stato chiesto di fare una mostra personale molto bella al palazzo Rigoletto di Mantova. Quindi avevo avuto anche questo stimolo di completare progetti che non avevo mai finito, ma la mostra poi è saltata per il lockdown. Poi per fortuna è venuto fuori in modo violento il bisogno di scrivere canzoni, ma nella prima parte del lockdown ero davvero confuso e sbandato.

Ci si chiede continuamente come ne usciremo. C’è qualcosa che non sapevi prima della pandemia e che grazie alla pandemia hai capito? Su di te, le relazioni, il mondo…

Su di me non so, non ho ancora metabolizzato, sono ancora molto confuso. Soffro troppo pensando ai ragazzi, a mio figlio; penso alla vita che facevo io alla loro età, alle opportunità che ho avuto… a vent’anni io ho incontrato Lucio Dalla, gli Stadio, si sono realizzati tanti sogni vivendo una socialità gioiosa e spontanea. Vedere generazioni intere bloccate mi fa soffrire tantissimo. Mio figlio ha 22 anni, l’età in cui io ho fatto il mio primo disco, cose che mi succedevano semplicemente girando per Bologna, nemmeno facendo chissà che viaggi straordinari.

Era una città piena di stimoli, piena di cose, di azione, di vita, stimolava la curiosità e la voglia di capire il mondo. Vedo la differenza tra un mondo analogico che era però un Big Bang, un’esplosione di vita, anche di contraddizioni, dalla politica alla socialità, l’arte e la musica, era tutto in movimento, invece vedo adesso un mondo digitale – che ci ha salvati è vero – ma nel quale sembra tutto immobile.

Penso che questa sia la tragedia più sottovalutata di questa assurda pandemia, che avrà effetti nel medio e lungo periodo. Nessuno si è occupato per un anno intero del benessere psicologico dei ragazzi. Gli hanno dato la scuola on-line e amen. Speriamo cambi qualcosa… Un ragazzo di un liceo mi ha detto che lui una cosa con la pandemia l’ha capita: la dimensione sociale che hanno perso. La mia speranza è che una volta finita questa storia ci sia una esplosione di vitalità come quella che seguì la fine della guerra.

È imperscrutabile il futuro, il dopo, quello che accadrà. Cosa provocherà questo infinito periodo di traumi, di paure, di ansie?

Che forma prenderanno i desideri insoddisfatti e repressi? Chi lo sa? È difficile da leggere, però sicuramente dopo succederà qualcosa.

Ma sì, io voglio vedere una festa ininterrotta di un mese, voglio vedere ragazzi che ballano in strada e che fanno un casino pazzesco. La festa più grande della storia… Ora che mi racconti come hai vissuto il primo lockdown, capisco meglio il tuo singolo di questa estate; pieno di ricordi d’infanzia, l’infanzia in un tempo complicato ma vivo. Da una parte la semplice vita dei giochi, il calcio, il cortile, le ragazze e dall’altro gli anni di piombo, la strage di Bologna…

In quel periodo, il primo lockdown, non ho scritto quasi niente. L’unica cosa che mi piaceva era quel pezzo, nato da uno strano movimento interiore che partendo dal trauma del lockdown mi aveva rimesso in contatto con altri traumi vissuti in vari passaggi della mia vita e che si sono riaccesi.

Penso che mi domandassi inconsciamente se avessi già vissuto cose analoghe, perché il dolore ogni volta è nuovo e vorresti riportarlo in un territorio conosciuto. Ad esempio, mi ricordo quando negli anni ’80 ci fu la cosa della mucillagine. Che non si potesse fare il bagno al mare mi pareva una cosa assurda come questa che stiamo vivendo; e al tempo stesso i primi segnali, la prima presa di coscienza che l’ambiente fosse un tema fondamentale.

Parliamo di cose più allegre. Quel pezzo aveva dei suoni molto anni Ottanta…

Era volutamente così, il ritornello era molto synth-band anni Ottanta. Ma sto andando in una direzione diversa per il prossimo lavoro, sto ripartendo da una dimensione più lontana dall’elettronica degli ultimi dischi. Lo stimolo mi è arrivato anche dal fatto che a novembre è mancato mio papà. È stato un grande dolore. Mio padre era in affitto e quindi abbiamo dovuto liberare casa sua e nel farlo ho trovato miei provini che non ricordavo di aver lasciato dai miei genitori, cose fatte al pianoforte, registrate su cassette e che lui aveva conservato. Cose che avevo buttato giù e avevo scartato perché magari c’era solo un abbozzo di idea. Mi son messo a fare una ricerca, ho trovato idee molto belle, anche a livello di suoni. Io stavo già scrivendo cose nuove in quel momento e così è arrivata la visione di una sintesi, di un punto d’incontro tra il passato e il presente. Non so cosa ne uscirà, però ho sentito molta energia ascoltando queste cose vecchie, che sono poi solo degli stimoli, alcuni li sto sviluppando, molti pezzi li sto scrivendo ex-novo. Ma c’è una libertà di stesura in quelle idee, i pezzi erano così liberi… io mi sento libero anche oggi, ma ogni tempo ti condiziona e ti tira fuori cose diverse. Non sto pensando di fare un disco con le canzoni di una volta, ma ho riscoperto qualcosa che è dentro di me, la mia prima scrittura, e quindi potrebbe essere un disco diverso dai miei ultimi proprio perché parte da sensazioni e movimenti d’animo diversi. Questo essere chiusi e distaccati a causa di questa tragedia, vivere una crisi così… mi sono trovato inaspettatamente a pensare a tante cose del mio passato. Una cosa nuova per me, non ho mai pensato al passato, ho sempre guardato al futuro.

A stare fermi troppo tempo la tentazione di voltarsi indietro diventa incontenibile. Parliamo di Sanremo, l’hai visto? Quasi mancava la generazione di mezzo: c’erano Orietta Berti e un sacco di giovani…

Sì, io penso sia giusto così! Poi Sanremo condiziona sempre un po’, nel senso che c’erano artisti alternativi e indie che però a Sanremo vengono spinti a essere troppo pop, forse. Non sono rimasto particolarmente colpito dai pezzi, mi è piaciuto quello di Dimartino e Colapesce, mi ha colpito subito, mi hanno colpito anche i La rappresentante di Lista, mi son piaciuti i Coma_Cose… bello che ci fossero tanti giovani. Però io sono molto difficile, voglio il pezzo che rimane nella storia, voglio dire Vita spericolata di Vasco a Sanremo, quella botta lì la cerco sempre.

Ah, bei tempi quando i pezzi veramente fighi arrivavano ultimi a Sanremo…

Sono stato contento però che c’erano i giovani.

Ecco. I giovani. L’indie pop italiano, che sta già finendo, forse, ha preso a piene mani da te, ha arato il tuo campo…

Devo dirti che è stata una bella sorpresa scoprire che tanti giovani avevano come riferimento qualcosa che in qualche modo avesse a che fare con quel mondo là, che non è solo mio, anche se in quel periodo, negli anni ’80, le case discografiche cercavano band e non cantautori che raccontassero la loro generazione. Per cui io sono stato forse un’eccezione. Cercavano cose molto più superficiali, più di immagine, di tendenza. E non ci son state tante voci che raccontassero e questo ha fatto si che quel momento storico lo abbiamo fotografato in pochi. Fu anche un momento di grande innovazione del linguaggio, non per merito mio, per via dei grandi cambiamenti, il muro di Berlino, la fine della divisione sociale tra comunisti e democristiani… si cercava anche un nuovo modo di guardare le persone, provare a guardarle senza le divise, senza la tessera. Una grande rivoluzione, che è arrivata anche alla musica in qualche modo. Allo stesso tempo c’erano anche conflitti, c’era stato il punk e tanti altri fenomeni di rottura nella musica che aprirono possibilità di libertà nuove. Quel momento ha condizionato il linguaggio della canzone fino a oggi. Quella metamorfosi è rimasta viva in questi ultimi 30 anni, rap a parte, è cambiato poco. La canzone si è evoluta pochissimo; questo penso. E ancora attuale quella matrice, e può essere fonte d’ispirazione. Poi certo le cose cambiano e magari questo indie pop finisce presto o è già finito come dici tu.

A me a Sanremo è piaciuta molto Madame, diciotto anni e si scrive i pezzi ed è così genialmente off…

Ah sì, lei mi è piaciuta molto, anche perché una volta non c’erano tante donne autrici nel pop, a diciotto anni poi! C’erano solo donne interpreti nell’immaginario collettivo. Quindi bene.

Sì, vero. Adesso parliamo di calcio, una passione che condividiamo. Volevo solo sapere come vivi il silenzio che segue un gol allo stadio. A me taglia il cuore in due…

Assolutamente sì. Amo moltissimo il calcio e ne guardo talmente tanto! Non solo della mia squadra, il Bologna, ma anche le altre. Mai come in questo momento, tutti chiusi in casa, il calcio aiuta. Lo amo al punto che pur soffrendo per quello che dici sono felice che ci sia almeno il campionato che va avanti. Perché da un altro punto di vista, mi sembra che pur nel dolore della mancanza del pubblico, del tifo, vedere professionisti che giocano nel silenzio è come vedere il calcio puro. Vedi una grandissima partita, grandi azioni, grande velocità senza l’incitamento dal pubblico; vedi una grande prestazione come fatta nel cortile, nel campetto. È commovente, no? Mi sembra che ci sia anche un aspetto positivo, una squadra che deve vincere lo scudetto vive in campo solo del “fatto tecnico” e della sua anima, la grande giocata di un campione viene perché ce l’ha dentro lui, come se lo facesse per il puro gioco, non è sovreccitato dal pubblico, non ha la gratificazione immediata. Magra consolazione, certo, però questo mi ha fatto capire ancor di più la grandezza del calcio, dei gesti tecnici, la concentrazione richiesta dal gioco, in quel contesto apparentemente depresso, di solitudine del calciatore. È emozionante, doloroso ma anche emozionante.

Beh hai trovato una bella chiave per godere di quel che c’è, che di questi tempi è cosa preziosissima. Però secondo me anche i giocatori non ce la fanno più senza pubblico…

Sì, io penso al fatto che sarebbe impossibile fare un bel concerto davanti alle sedie vuote. Impossibile.

Sì, ne ho visti un po’ in streaming, e l’effetto è come il silenzio dopo il gol. Finisce la canzone e niente; silenzio.

Sì quello è triste, invece i calciatori riescono a fare la partita della vita anche senza pubblico.

Cosa stai leggendo in questo periodo?

Sinceramente, dato che io non ho molta memoria, sto rileggendo i libri che leggevo a vent’anni, sto rileggendo libri già letti.

Anche io. Ci sarà un motivo…

Ma vuoi sapere cosa sto leggendo in questi giorni? I Promessi Sposi! Perché ricordo benissimo di quanto mi fossi emozionato quando lo lessi la prima volta, e mi è venuta la curiosità di provare a capire meglio perché. Lo sto rileggendo a quasi sessant’anni. Un libro che mi aprì un mondo all’epoca, anche se era un testo scolastico, e quindi per definizione noioso. Ma io me lo sono letto un’estate per i fatti miei e mi emozionò. E quindi me lo rileggo.

 

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