Ha detto Julian Assange che ogni rivoluzione è la lotta del nuovo contro il vecchio. Banalità, in apparenza, ma è una chiave laica per ridimensionare tutte le ideologie del secolo breve. Non è forse vero l’inverso: che ogni lotta del nuovo contro il vecchio sia una rivoluzione, almeno nell’accezione progressista che i nati nel Novecento attribuiscono al termine.

A bocce ferme, in Italia, nelle sale di cinema, anche ripopolate al cento per cento, non ci si torna. Non come prima, per quanti voti, ceri e scongiuri possiamo mettere in gioco. È un passo verso il futuro? Sì. È un futuro di magnifiche sorti e progressive? No. È distopia pura.

È in atto una democratizzazione degli accessi all’audiovisivo che appiattisce il gusto, pilota i consumi e azzera la scala di valori. Ma indietro non si torna. È un salto epocale. Non parlo da tecnica ma da profana.

Alla data recente del 18 ottobre 2021 – a sale già riaperte al 100 per cento – gli incassi delle sale italiane erano sotto i 20 milioni di euro, per un totale di meno di 2 milioni e 862mila presenze. Meno dei 21 milioni e 259mila quasi incassati in settembre, a sale contingentate: rispetto al 2019 pre Covid, il crollo di incassi e presenze è rispettivamente del 42,8 per cento e del 45,1 per cento. E non venivamo certo da tempi di vacche grasse.

Questo non è un sondaggio, e tanto meno un’inchiesta. Da spettatore ordinario, registro che in due anni di pandemia anche i più riluttanti tra i miei conoscenti si sono rassegnati alle piattaforme.

Mi guardo bene dai cookies subliminali, ma è un fatto che l’abbonamento mensile alle piattaforme più popolari è pari o di poco sopra il costo di un solo biglietto di cinema. Biglietto che nel frattempo spesso è aumentato. E al cinema non ci vai da solo, se non sei proprio sfigato.

Squilibrio nell’offerta

Sono voci che le famiglie hanno già messo in bilancio ordinario, in una fase che sconta prospettive di inflazione almeno fino alla metà del 2022, il rialzo di benzina e bollette, la conversione o l’adeguamento degli apparecchi tivù. Ci sono cataloghi di animazione, per i bambini, che in tempi non floridi di ripartenza annunciata ti risparmiano il salasso della domenica al cinema, con annessi popcorn. E c’è una rivoluzione di costume che non risparmia nessuno di noi: a metà cena – ora che abbiamo ripreso le consuetudini conviviali – non tiene banco il bisticcio sugli ultimi film, ma il passaparola sulle serie “imperdibili”. È più di uno scambio di dritte, è un imperativo morale. È il segno che l’immaginario tuo e del tuo prossimo d’à côté ha già pronti gli scatoloni per traslocare.

C’è uno squilibrio di quantità nell’offerta che parla da sé. Che i colossi del Web dispongano di capitali capaci di intercettare e iscriversi a libro paga i migliori talenti su piazza lo sanno anche i sassi. Ok, ma la qualità dell’offerta, dove la mettiamo? C’è un paragone che la contiguità di proiezioni alla Festa del cinema di Roma mi ha involontariamente suggerito. Si proiettavano, a ruota, L’Arminuta di Giuseppe Bonito, che va in sala, e Passing, opera prima di Rebecca Hall, esclusiva Netflix, che passa solo su piattaforma. Sono piccoli film, entrambi da romanzi.

Quello di Donatella Di Pietrantonio, premio Campiello nel 2017, da noi è un bestseller molto amato. Quello di Nella Larsen, uscito negli Usa nel 1929, per noi è un oggetto oscuro. Stiamo parlando, per l’Italia, del top di gamma: Bonito è bravo, e a Roma il film è stato premiato.

Da spettatore ordinario però mi chiedo: in quel gioco della torre che è inesorabilmente ogni serata da dedicare a un film, cosa sceglierei? Uscirei di casa per vedere la versione femminile di Incompreso – che sopportavo a fatica fin da bambina – fra gli stenti dei contadini abruzzesi, o mi godrei dal divano di casa il bianco e nero di una complessa meditazione sull’identità black nella New York del 1921?

Siamo tutti in comune astinenza da viaggi, e sa il cielo quanto l’amore e lo scellerato binge watching per serie (bellissime) come Breaking Bad sia stato trainato anche dal guilty pleasure di perdersi nei panorami assolati del New Mexico. Personalmente, nel caso specifico, lo dico senza incertezze: resterei a casa.

In linea puramente teorica, vorremmo tutti tornare in sala. C’è un’industria da rilanciare, i cinema fuori dai grandi circuiti chiudono, c’è un mare di gente alla fame. La fetta di mercato di puro colonialismo anglofono – supereroi, action movie, 007 – lima i record, ma per lo zoccolo duro dei teenager e degli adulti-bambini il grande schermo resta un must.

Per tutti gli altri, l’allarme rosso sul cinema in sala data da molto ma molto prima del lockdown. Al di là dei proclami, si è ragionato sulla disaffezione degli italiani per i film italiani? Nel corso di questi mesi, si è consumata piuttosto la riconversione a catena delle nostre piccole major e dei talenti anche appena modesti verso progetti di serialità tv.

Netflix si presenta all’appuntamento del “liberi tutti” con quell’ordigno nucleare che è Squid Game, 142 milioni di spettatori in meno di due mesi. Non è per forza un’alternativa alle sale, ma ha fatto lievitare gli abbonamenti di 4,4 milioni nel solo terzo trimestre 2021, con previsioni di 8,5 milioni in più entro fine anno.

Quei quattrocentocinquantasei disperati che vanno al macello in tuta verde sono una miniera d’oro. Costata 18 milioni euro, la serie viaggia oggi sui 900 milioni di introiti indotti, tra merchandising e videogiochi.

Capitalismo maturo

Perché spopola il calamaro sudcoreano? Per quel di più di violenza, sangue e tensione tanto vituperato dai columnist in modalità moralista? Squid Game è figlio legittimo di Parasite, doppio Oscar 2019 accolto con standing ovation dai grandi di Hollywood cui Bong Joon-ho l’ha soffiato. Ha una valenza sociale diretta e tagliente.

Esteticamente, colora di tinte pastello le scale di Escher, dialoga con certi set di Lars Von Trier in Dogville e con l’orgia di Kubrick in Eyes Wide Shut, congegna varianti su quello schema codificato di sceneggiatura a prova di bomba che è Il viaggio dell’eroe.

Non è un sottoprodotto. Descrive l’inferno del capitalismo maturo – leggi selvaggio – senza paludarsi da pamphlet politico. Roba così, corri a vederla anche in sala. Ma chi la scrive da noi? E in subordine, chi la interpreta? Quei quattro soliti noti senza i quali non ti producono il film? I sondaggi non servono, come i bla bla dei convegni e simposi.

Ho un amico che fa lo sceneggiatore, o meglio “è” lo sceneggiatore del nostro cinema oggi. Si chiama Nicola Guaglianone. Di Freaks Out di Gabriele Mainetti, in uscita, firma soggetto e sceneggiatura, ma è un torrente in piena. Lui al ritorno in sala ci crede.

Per la ragione che Terry Gilliam gli condensò una volta in una battuta: «Al cinema i personaggi sono più grandi di te. Sul cellulare e in tv sono più piccoli. La fuga dalla realtà ce l’hai in sala, a casa non ti dimentichi mai che stai sul divano». Senza contare la condivisione, il feedback. Il grande Leo Benvenuti, al tempo del tabacco autorizzato, misurava l’efficacia di una sequenza dal numero di sigarette che si accendevano subito dopo. Era il metro dell’investimento emotivo. Fa fede Seneca, l’uomo è un animale sociale. «Anche i più ostinati misantropi, in uscita dalla pandemia, non vedono l’ora di mettere il naso fuori».

Purché il fuori non sia cercare il successo dell’anno prossimo riproponendo il successo dell’anno passato.

Le falle: «Manca un lavoro onesto sulla formazione. Manca insegnare che la scrittura è un mestiere, come nelle botteghe artigiane del Cinquecento. Se fai un tavolo e sbagli le gambe, non sta in piedi». Abbiamo un cinema che non dialoga con il suo pubblico. «Esiste un’equazione dell’emozione: ma i produttori devono investire industrialmente su gruppi editoriali capaci di leggere le sceneggiature». Non è per domani. Chissà se e quando torneremo capaci di riempirle, le sale.  

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