L’otto settembre 2024, al MaxxI di Roma, un centinaio di persone, tra insegnanti, educatori ed educatrici, politici, militanti e genitori, si erano incontrate per un’assemblea pubblica a partire dal libro Alfabeto della scuola democratica (Laterza), a cura di Christian Raimo. Si tratta, per l’appunto, di un alfabeto, un abbecedario scritto a più mani, sulle teorie e le pratiche del fare democrazia a scuola; un libro definito dallo stesso Raimo «a tratti disomogeneo, perfino contraddittorio».

Eppure, in questa disomogeneità, il minimo comune denominatore è proprio la democrazia. La democrazia quella vera, quella stessa democrazia che la scuola dovrebbe non tanto insegnare, quanto confermare, consolidare e soprattutto praticare. Tuttavia, la scuola è attualmente lo specchio dello Stato: la democrazia viene parlata, non praticata. E ciò che più preoccupa è che nello stato-scuola-caserma la democrazia è quotidianamente sotto attacco, indifesa.

Lo scriveva chiaramente Carla Melazzini (Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio), fondatrice del progetto Chance con i Maestri di Strada a Napoli, la quale aveva messo in luce quanto «il mondo adulto si specchi negli occhi dei nostri adolescenti come una gigantesca menzogna», concludendo profeticamente di avere «l’impressione che nelle nostre aule scolastiche si consumi quotidianamente un disastro di lunga durata, che nessun pubblico ministero con nessun avviso di garanzia potrà mai (…) sanare».

Sin dal primissimo dopoguerra, con la neonata Italia repubblicana, la scuola libera e antifascista ha avuto vita difficile, in un Paese ancora profondamente intriso di cultura ed esponenti fascisti. Molte tuttavia sono state le lotte e le conquiste nella scuola: dall’abolizione delle classi differenziali, fino all’approvazione delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione.

Da qualche anno, tutto quello che è stato costruito affinché la scuola potesse essere un luogo migliore rispetto alla società circostante, è di nuovo a repentaglio, ora anche a causa dei continui ddl prorogati abilmente dal Ministero dell’istruzione e del merito, che vuole fare della scuola un luogo a sua immagine e somiglianza. Si vedano la parola “merito”, in una società non sanamente meritocratica; si veda il voto punitivo della condotta, che sopprime ed irreggimenta; e ancora: la storia come materia libera da «sovrastrutture ideologiche», programmi che in apparenza possono non destare preoccupazioni, ma dei quali si vede chiaramente il fine fortemente reazionario e indottrinante.

L’Alfabeto della scuola democratica è un necessario tentativo di tornare a prendere consapevolezza per resistere a tutto questo, partendo dalle fondamenta. La cosa più interessante, però, è che non si tratta solo di un libro, ma sta diventando sempre più un’occasione di incontro, di scambio e azione. A partire da quell’incontro romano, ne sono seguiti altri. Uno degli ultimi si è tenuto a Napoli, a inizio dicembre, sempre con un’altissima partecipazione. Insegnanti di ogni grado, dirigenti scolastici, educatori, studentesse, studenti e persone esterne alla scuola si sono incontrate, riconosciute, hanno condiviso paure, frustrazioni, ma anche gioie facendosi forza a vicenda. Ci si sente meno soli, paradossalmente, laddove la scuola dovrebbe invece essere il luogo di comunità per eccellenza.

Da quell’incontro, a Napoli (primo capoluogo del Sud, città che tocca picchi altissimi di dispersione scolastica), è sorta la necessità di continuare a vedersi per decidere come andare avanti, che fare? Alcune delle persone venute alla presentazione hanno così cominciato a organizzarsi per pensare e condividere pratiche educative, per sentirsi meno sole e resistere di fronte a una scuola-caserma nella quale troppo spesso è difficile lavorare, studiare e vivere bene.

Sebbene questi incontri siano solo all’inizio, sottolineano un fatto: c’è in molte persone la volontà di cambiare lo status quo delle cose e di colmare i vuoti dati da una grave mancanza politica. Si tratta infatti di andare alla radice del problema, che è evidentemente politico. L’attuale Mim, così come i governi precedenti dell’ultimo ventennio, continuano ad intervenire sui programmi scolastici, dimenticandosi (forse appositamente) l’importanza della formazione dei docenti. Ed è proprio questo il punto: una formazione che riguardi i docenti della scuola democratica, affinché possano padroneggiare ed usare le “tecniche di liberazione” ed insegnare al futuro cittadino a pensare criticamente, nonché ad agire per cambiare il mondo, non c’è. Così le persone si organizzano autonomamente per tornare a trasferire, come diceva Mario Lodi, «l’impegno politico nel lavoro didattico quotidiano».

Questi incontri che si stanno sviluppando a partire dal libro Alfabeto della scuola democratica non sono gli unici. In tutta Italia ci sono vari focolai di resistenza didattica territoriale e tra i più importanti e storici ricordiamo il Movimento di Cooperazione Educativa. La voglia di agire per resistere dunque c’è. Bisogna trovare l’organizzazione, la rete, la forza per tornare in strada a rivendicare, a contestare, a pretendere.

Goffredo Fofi, a tal proposito, riassume bene il che fare in un tetralogo: resistere, fare rete, studiare e rompere i coglioni. Il libro, tra i suoi vari pregi, ha questo merito: può essere strumento di aggregazione, organizzazione ed azione. E allora, sulla scorta delle conquiste dei vecchi maestri, da Don Milani a Lodi, da De Mauro a Basaglia, torniamo a parlarci, ad organizzarci, per volere e fare la scuola – e la società – democratica. Veramente.


"Alfabeto della scuola democratica", a cura di Christian Raimo. Laterza, 2024, 272 pp, 18 euro

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