Quando ho letto la prima volta L’Alligatore di Massimo Carlotto, ho avuto la netta sensazione che dietro ogni pagina si nascondesse un mistero, qualcosa da scoprire, da indovinare. Soprattutto da ogni pagina vedevo saltar fuori i fantasmi di personaggi che leggendo ho incontrato nella mia vita di lettore sconclusionato.

Per esempio Nik Charles, uno dei detective di Hammet che già dalle prime pagine de L’uomo ombra te lo trovi lì appoggiato al bancone di un bar nella cinquantaduesima strada che aspetta la sua Nora con il bicchiere in mano. E mentre aspetta perduto nel bicchiere sempre vuoto, una bella ragazza bionda si alza e va verso di lui che praticamente non la fa parlare, perché ha già ordinato due scotch, uno per ciascuno.

La prima volta che ci siamo incontrati ho chiesto a Carlotto se per caso scrivendo la storia di Alligatore non avesse pensato anche un po’ a La danza immobile di Manuel Scorza, visto che certe pagine me lo avevano ricordato e Carlotto ha detto con notevole generosità di sì, probabilmente per non sbugiardarmi.

Non so se queste suggestioni siano “giuste”, ma una cosa è certa, la saga dell’Alligatore attraversa tutti i generi, dal Western all’Hard Boiled.

Dolente ed energico blues

Nel regista che deve farne un film può suscitare un certo panico questa ricchezza, perché il continuo attraversamento dei generi rende la trasposizione cinematografica molto complessa, ma allo stesso tempo molto affascinante perché bisogna scegliere senza diminuire la forza del racconto labirintico nel quale i lettori di Carlotto godono di infiniti stimoli creativi, colpi di scena, considerazioni fulminanti, cadute e risalite dei personaggi, atmosfere cangianti. 

Però io, dovendo immaginare un progetto artistico, dovendo cioè individuare una chiave di lettura, tra l’altro da condividere poi con il secondo regista, ho dovuto fare una scelta radicale: ho scelto un elemento e che mi permettesse di tenere insieme tutte queste caratteristiche, il blues.

Questo genere musicale, sempre evocato nei romanzi, dolente ed energico allo stesso tempo, ho pensato fin da subito potesse interagire con quel paesaggio meraviglioso, la Laguna Veneta, in maniera ricca, sorprendente.

Così, grazie a Teho Teardo, ho scoperto una cosa straordinaria, un progetto che si chiama We shall not be moved. E’ un libro con quattro dischi che che raccolgono cinquant’anni di musica made in USA, registrata da Alessandro Portelli sul campo, con un metodo alla Diego Carpitella, a partire dagli anni ‘60.

Si tratta di canzoni di lotta, fatte proprie dai movimenti di protesta americani, che raccontano i conflitti dell’America “vera”, non quella mainstream, ma la cosiddetta “pancia del paese”. Un archivio sonoro incredibile, che contiene il blues originario, quello cantato per strada, nei funerali, nelle feste, nelle fiere. Teho ha avuto una idea geniale, infatti chi guarderà la serie scoprirà che Alligatore ascolta soltanto questo tipo di Blues, è questa la sua anima che si riflette nella nostra Louisiana, quella della laguna veneta.

L’adattamento 

Quando leggiamo sulle riviste specializzate il termine “showrunner”, pensiamo che sia una specie di mostro organizzativo, un dittatore del set. Ma se lo showrunner non mette in campo delle idee che hanno un valore emotivo e compositivo, nessuna serie va da nessuna parte, perché le serie sono un po’ come dei treni che, in assenza di binari, sbandano e caracollano.

Ecco, con la mia troupe abbiamo elaborato il progetto per far vivere Alligatore, per tirarlo fuori senza danneggiarlo da quelle belle pagine che nessun film può eguagliare. Così con Gherardo Gossi e Beatrice Scarpato abbiamo pensato una fotografia e una scenografia che partisse dai colori della Laguna, il verde, il marrone, il rosso, facendoli rimbalzare dappertutto, sulle pareti delle case come sui volti dei personaggi.

Con Francesca e Roberta Vecchi abbiamo concepito dei costumi che mixano la storia del blues del rock e del cinema di genere per rendere ciascun personaggio unico e allo stesso tempo carico di tutte quelle suggestioni. Con Alessandro Palmerini abbiamo lavorato sugli ambienti sonori e sulle voci dei personaggi per esaltarne il calore e la forza. Insomma Alligatore nasce da un gruppo di lavoro solido, affiatato.

Prima ancora però è stata una esperienza non comune scrivere con Massimo Carlotto, Laura Paolucci, Andrea Cedrola e Emanuele Scaringi che poi ha diretto quattro degli otto episodi. Abbiamo scavato dentro i romanzi per cercare di tirare fuori l’essenza di ciascun personaggio e lo abbiamo fatto con slancio. Abbiamo anche scritto gli ultimi due episodi andando al di là dei romanzi stessi, per tirare le somme della narrazione che si era piano piano ingigantita.

E’ stato fondamentale avere Carlotto al nostro fianco perché noi abbiamo dovuto fare dei cambiamenti radicali rispetto ai suoi libri, mantenendone lo spirito. Per esempio ri-ambientando l’intera vicenda ai nostri giorni. E’ vero che l'ambientazione è rarefatta, quasi astratta e sospesa temporalmente, però fino a un certo punto, per esempio quando Alligatore finisce in galera è in corso un’alluvione in Veneto, e si tratta proprio dell’alluvione del 2010.

Così abbiamo deciso di giocare con la cronaca anche per portare dentro il racconto il secondo grande cambiamento: la miniserie è caratterizzata dal tema dell’ambiente ed è Max La memoria che nei libri è un ex militante politico degli anni 70, che dalle lotte ha ereditato un immenso archivio, “la memoria”, al quale Alligatore attinge per scoprire le trame dei poteri occulti che devastano il nordest.

Ecco, nella serie invece Max è un blogger ambientalista, anche perché gli anni ’70 non sono più un riferimento nella coscienza collettiva, la generazione dei quarantenni è cresciuta nell’epoca berlusconiana, nel “dopo muro di Berlino”. Così Max è un ambientalista e quindi conosce il territorio a fondo e tutti quelli che esercitano violenza su questo territorio, ecco che tutte le linee orizzontali del racconto vanno in quella direzione per cui la serie si sviluppa tra un disastro ambientale e l'altro, dall’alluvione del Veneto del 2010 alla tempesta di vento che nel 2018 ha messo in ginocchio il nordest.

Sorpresa per la serie

In questi giorni ho letto molta sorpresa nei commenti sulla serie (che dal 18 novembre è su RaiPlay, quindi sono già uscite recensioni e articoli e dal 25 sarà su Rai2) perché nessuno pare si aspettasse dei racconti così “arditi” dalla Rai.

Io non ho ben capito questa sorpresa generale, perché con Rai Fiction ho lavorato benissimo già nel 2018 quando ho fatto per Rai1 Prima che la notte, il film che racconta la storia di Pippo Fava e della nascita dei suoi giornali. Già al tempo ho avuto a che fare con grandi professionisti, rispettosi del mio lavoro. Inoltre con Fandango abbiamo sempre fatto opere libere da condizionamenti di qualunque natura, l’unica cosa che mi sento di dire a tal proposito è che mi sono molto divertito nella realizzazione di Alligatore, e spero che si diverta anche il pubblico a guardarlo.

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