Il fan-tipo di Elvis è proletario. È storicamente proletario. Quando a Graceland hanno provato a vendere a 100 dollari e più t-shirt firmate Dolce&Gabbana hanno rischiato l’insurrezione. L’idea era quella di trasformare il business dei souvenir in un marchio di lusso, riducendo la paccottiglia da merchandising trash e puntando su un mercato più redditizio.

Perché gli introiti legati al patrimonio ereditario di The King da un pezzo si vanno assottigliando. È un asset in declino. Il punto è che, anagraficamente, il popolo tradizionale di Elvis è in via di estinzione. Gli incassi legati ai diritti musicali sono ben lontani dai 60 milioni di dollari annui di un decennio fa. Un sondaggio del 2017, circoscritto al pubblico britannico, ha rivelato che per il 30 per cento degli intervistati tra i 18 e i 24 anni Presley era un signor nessuno. Le cianfrusaglie da bancone, a vendite più che dimezzate, ingrossano le scorte degli outlet a prezzi di saldo.

I brand purtroppo muoiono di vecchiaia, come gli esseri umani. La società che gestisce l’impero Presley, la Authentic Brands Group, aveva valutato l’ipotesi di promuovere un tour con l’ologramma di Elvis. Ipotesi tramontata, per fortuna, a velocità record. Graceland, gestita come una redditizia Disneyland a tema (chi scrive ci è andata in pellegrinaggio un paio di volte, con immenso diletto) può contare sui tour-evento in occasione degli anniversari, a volte guidati personalmente da Priscilla Presley, che fruttano, quando i riti celebrativi propiziano, fino a 900 dollari a biglietto.

Quest’anno ricorrono 45 anni dalla morte. Ma il tempo vola, il centenario dalla nascita (8/1/1935) non è poi così remoto e un Presley vecchio di un secolo non si vende. Ai giovani non interessa. La parola d’ordine, in questo 2022, è quindi: ringiovanire Elvis, a squisitissimi fini di marketing.

È una strategia fatta di immagini pilotate (il ragazzo born-in-Tupelo nella sua versione esplosiva anni Cinquanta) e di sganciamento pilotato dell’icona dal rock’n’roll, musica fuori corso, muffa d’antiquariato. «Non lo presenteremo come un rocker – ha dichiarato a Rolling Stone John Jackson, vicepresidente di Sony Music che gestisce il catalogo Presley – lo presenteremo come un personaggio leggendario della storia americana». Le icone, si sa, come Marilyn, non sono soggette ad usura, e fanno breccia anche sulle nuove generazioni. Si tratta di intercettare i minorenni, la vera incognita dei giorni nostri.

Penuria di glamour

È una pianificazione che francamente mette tristezza. Chi non è ansioso di baloccarsi con il “filtro Elvis” su Instagram, che magicamente ti adorna di ciuffo, giacca e connotati doc, può prepararsi alla serie animata creata da Priscilla Presley per Netflix, Agent King, con un Elvis versione cartoon che lavora sotto copertura come spia del governo. I fans in quota liberal sono piuttosto nervosi: sarà lo sviluppo action-fantasy dello storico incontro, nel dicembre 1970, tra The King e Richard Nixon, ricostruito per il cinema da Liza Johnson in Elvis & Nixon? Una seconda identità da sceriffo trumpiano?

Su questo scenario marcatamente revisionista piomba come un macigno Elvis, monumentale e ragionato biopic di Baz Luhrmann che è in sala da noi il 22 giugno. Cannes se lo è accaparrato anche per rimediare a una desolante penuria di glamour. Il Festival che si fa un vanto di snobbare, anacronisticamente, la produzione targata Netflix, Amazon e consorelle rincorre lo star system in fuga verso Venezia, e metaforicamente ha coperto d’oro Tom Cruise per garantirsi i riflettori planetari di Top Gun: Maverick.

Ma far rivivere la sensualità del broncio e del pelvis di Elvis è molto più temerario che clonare il Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody. Non gli somiglia, all’inizio, Austin Butler, beniamino dei trentenni teledipendenti americani ma da noi appena intravisto finora in C’era una volta..a Hollywood e in I morti non muoiono di Jim Jarmush. Eppure Butler “diventa” Elvis.

Non è questione di canto ma di fisicità e di controllo dei muscoli facciali. E capitale è la rilettura, appassionata quanto di parte, di quei 42 anni di vita. È un film concepito per rivendicare la fedeltà di Elvis alle radici nere, ai sound indigeni di Memphis. È strategico scegliere come voce narrante l’imbonitore da fiera che si è adoperato per cancellare ogni traccia di negritudine dal suo riottoso pupillo: il colonnello Tom Parker, un Tom Hanks miracoloso.

È un’arringa, quella di Luhmann, intrisa di fantasia e forzature. Visto con gli occhi di una fan della vecchia guardia, l’abbacinante caleidoscopio del film – che programmaticamente simula un effetto-caleidoscopio ingemmato sui titoli di testa – è scandito dallo scontro tra manipolatore e manipolato sull’identità razziale del rock ‘n’ roll che esce dalla gola e dal corpo di The King.

Il vecchio Colonnello per il mondo è sotto accusa. Sfruttamento, speculazione, parassitismo vorace: la sua gallina dalle uova d’oro, dicono, l’ha uccisa lui. «Non l’ho ucciso: l’ho creato», replica nei suoi incubi. Dietro la sua scrivania Luhrmann piazza l’insegna dei manager da baraccone. Come recita il detto attribuito a H.L. Mencken, «nessuno è mai fallito per aver sottovalutato l’intelligenza del popolo americano». Il Colonnello è un Barnum di serie B. Ma ha creato l’Elvis che conosciamo, nel bene e nel male. Prima intuizione: sulle radio locali del Mississippi furoreggia una hit firmata da Big Boy Crudup, That’s Alright Mama. «Ritmi negri», sentenzia Hank Snow, l’artista country assistito dal Colonnello.

Ma la voce è bianca. C’era una volta un ragazzino che spiava il blues erotico delle baracche e si intrufolava nelle funzioni battiste. Sui palchi di provincia si agita nei panni sgargianti esposti dalle vetrine di Beale Street e si trucca come le ragazze. Eccita le platee femminili: è come assaggiare il frutto proibito. Lo stile è già nato. Questione di tempo, e pioveranno mutandine sul palco. Luhrmann usa Orson Welles, il padiglione degli specchi di La Signora di Shanghai, come metafora per la tela di ragno del Colonnello.

«Ti farò volare», promette. Ma è un futuro promesso, simbolicamente, sulla ruota gigante del Luna Park: è su quelle modeste vette che il manager ragiona. «Il business è trucco», sentenzia. Ma sull’immoralità dello “stile Elvis” la stampa segregazionista locale si è già scatenata. Prima mutazione imposta dal manager: deve sedurre le famiglie, vestirsi e muoversi da bravo ragazzo. E prima invenzione registica: è B.B.King in persona a suggerire all’amico la ribellione contro l’immagine addomesticata del “nuovo Elvis”, mentre Little Richard si scatena con Tutti frutti in quel di Beale Street. «Rischio l’arresto», è l’obiezione. «Semmai l’arresto lo rischio io, tu sei bianco».

Cambio di scena

L’arruolamento di Presley, i capelli rasati, il servizio militare in Germania sono solo l’astuto espediente del Colonnello per riprenderlo sotto controllo. Risucchiarlo dopo la naja nei paradisi di celluloide di Hollywood è un gioco da ragazzi. Split screen, fumetti, fiction virata in materiale d’archivio: anche Luhrmann, come il Colonnello, è un imbonitore, un giocoliere dello spettacolo.

Ma è dalla parte di Elvis. Il secondo scontro frontale è nel 1968. Dopo sette anni di brutti filmetti, si progetta un Christmas Special per la Nbc, tutto melassa e canzoni natalizie. Il mondo è cambiato e anche l’America. C’è la Beatles Invasion, Martin Luther King è stato ammazzato a un passo da Graceland. «Dr. King, lui diceva la verità», piange Elvis. Ma i funerali li guarda in tv, Parker gli ha vietato di metterci piede.

Ascolta Mahalia Jackson e sa che solo quella musica lo fa felice. E si ribella, di nuovo. Fasciato di pelle nera, registra la più strepitosa performance della sua vita, che non rassicura ed è ad anni luce da Santa Claus. La ricostruzione del film intreccia quelle immagini all’assassinio di Bob Kennedy: Elvis si è schierato. Non è successo davvero, ma è bello crederci.

Allontanato di nuovo, il Colonnello perde quattrini a raffica nei Casinò di Las Vegas. Come onorare i debiti? Il nuovo staff di Presley progetta un tour mondiale. E il genio di Parker gli fa suggerire l’idea di uno show pagato dagli altri, a costo zero: basta il disturbo di inaugurare il nuovo, faraonico Hotel International di Las Vegas. È il mausoleo che seppellirà una star avvilita, imbottita di Percotal e Demerol. Perdòno lo scivolone finale da soap con Priscilla, perché la mission di Luhrmann è seria e interessante.

Sui titoli di coda i nostri Maneskin piazzano la loro cover di I Can Dream. Baz Luhrmann non solo capisce la musica, la materializza. Non parlo degli high budget, di Moulin Rouge o dei party faraonici del Grande Gatsby. Parlo di Strictly Ballroom (poi diventato Ballroom tout court) e di Cannes anno 1992. Sono tra quelli che scoprirono il film grazie ai foglietti dattiloscritti affissi di furia al Palais.

Su questo australiano sconosciuto era scattato il passaparola. Si organizzarono, a furor di popolo, proiezioni speciali. Era un piccolo film che esumava un cadavere – il ballo da sala – usando a man bassa il grandangolo. Volti grotteschi, rumbe preistoriche, outfit sgargianti da provincia profonda: era bellissimo. Il grandangolo è sparito, la fantasia resta. O meglio, riappare ogni tanto.

La chiesetta di Coen

Ma il vero colpo di genio – e fortuna – di Cannes 75 è aver accostato la cattedrale di Baz Luhrmann alla chiesetta di Ethan Coen. Chiesetta si fa per dire, non da funerale comunque, perché l’icona oggetto del film di montaggio che sanziona il divorzio artistico tra i fratelli Coen, Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind, è ancora vivissima e attiva. Classe 1935 come Elvis, Jerry Lee The Killer (nomignolo che non sopportava) è l’unico sopravvissuto tra i cinque pionieri ufficiali del rock ‘n’ roll: Chuck Berry, Bo Diddley e Little Richard, oltre a The King.

Solo due sono bianchi: la minoranza. I codici e le influenze fondanti del “genere” hanno un altro colore. Il partito di Black Lives Matter è autorizzato a chiedersi perché il cinema degli autori si occupi solo delle leggende di pelle chiara. Il lavoro di Ethan Coen, concepito e realizzato insieme alla sua consorte e montatrice Tricia Cooke, non è fiction ma documentario, è destinato alla televisione, dura appena un’ora e tredici minuti e ha l’umiltà commovente delle opere che puntano alla sostanza, non al pubblico ossequio. È la contiguità sugli schermi del Festival a enfatizzare lo scontro.

È Davide-Coen contro Golia-Luhrmann, ma l’antinomia riguarda direttamente i personaggi affrontati. Con esemplare understatement Ethan Coen spiega che il suo (diversamente da quello di Luhrmann) non è un atto di devozione. Non si spaccia per un fan sfegatato di Jerry Lee Lewis. L’idea gli è venuta per combinare qualcosa durante il lockdown, su consiglio dell’amico T-Bone Burnett, celebre musicista e produttore.

Ma Ethan è un Coen: la musica è parte integrante della storia di coppia, anche se Joel, con Macbeth, ha imboccato in solitaria strade diverse. Da questo elettrizzante collage d’archivio si esce con il groppo in gola, perché profuma di verità e perché alle epiche performance di JLL ruba il ritmo e la velocità mozzafiato. Sui titoli di coda senti di aver incontrato un tizio incasinato e vitale, di mostruoso talento e di stravagante coerenza, che valeva la pena di conoscere almeno un po’.

L’anti Elvis

Jerry Lee Lewis è l’anti Elvis. Oggi sarebbe strame sotto i talloni di #MeToo, un pedofilo da gogna mediatica. Ma anche nel remoto 1958 il matrimonio a 33 anni con la cugina Myra Gale Brown, che di anni ne aveva 13, gli bruciò la carriera. Da star delle classifiche ai bar micragnosi, 200 dollari a sera, in un battibaleno. «Ci ho messo 12 anni a risalire la china», racconta in un frammento d’archivio. E risale la china cambiando pelle alla fine degli anni Sessanta, sconfinando dal rock nelle regioni del country, avvicinandosi ad Hank Williams.

È la sua seconda vita musicale, quella che noi, lontano dagli Usa, conosciamo meno. Coen non glissa sullo scandalo-pedofilia, registra con attenzione domande e risposte. Risposte che spesso sono battute provocatorie: «Beh, in realtà l’ho sposata a dodici anni, ne ha compiuti tredici il giorno dopo». Oppure: «Avevo tanti cugini e cugine che ho dovuto sposarne una!». Non striscia, non fa ammenda, non si cosparge il capo di cenere. Ma è un reietto da sbeffeggiare. Bob Hope ci va a nozze: «Le novità su JLL? È diventato padre. Ha adottato sua moglie!».

Parecchi anni dopo, intervistata in Tv, l’ex moglie-bambina Myra racconta il “pedofilo” con empatia e senz’ombra di acredine, uomo in perenne lotta con i suoi dubbi religiosi e la propria coscienza: «Secondo lui il suo immenso talento gli è stato dato per diventare Pastore». Sulfureo nella rappresentazione mediatica anche per incidenti agghiaccianti di cronaca – come lo sparo che nel 1976 quasi uccise il suo bassista Butch Owens, come una moglie e un figlio annegati in piscina – JLL si è sempre considerato «un cristiano nello spirito».

Sesso, droga e rock ’n’ roll, con una corposa aggiunta di alcol, ai tempi d’oro: è agli antipodi del santino di Elvis fabbricato a fatica dal Colonnello. Eppure – o forse proprio per questo – nella ricostruzione di Coen il personaggio trasuda un’autenticità che emoziona. Tratto fondamentale, che scava un abisso tra i due: JLL non perde occasione per dichiararsi debitore in toto alla musica black respirata nella sua Ferriday, in Louisiana, e poi a Memphis con B.B.King. È stato legato per tutta la vita a Chuck Berry e a Little Richard: nel film ci sono una cover di Johnny B. Goode e un duetto gospel con Richard da mettere i brividi. Il Colonnello ha lavorato assiduamente a sbiancare il suo prezioso pupillo, taglio chirurgico con quella cultura.

È davvero l’anti Elvis, JLL, nell’iconografia. Ma anche per una sorta di disarmante, fondamentale onestà, che non aveva suggeritori alle spalle. Detronizza il rivale senza esitare: «Chuck Berry è The King del rock ‘n’ roll». Chuck Berry, non Elvis. Ma come ha fatto Elvis a diventare Elvis?, gli chiedono. «Aveva un grande manager, che lo trattava come una scimmia in gabbia», dichiara serafico.

Nascono poverissimi e hanno avuto lo stesso mentore – il Sam Phillips della Sun Records – ma vite parallele agli antipodi. Ho trascurato finora il JLL live, le performance pirotecniche che pure sono il cuore del film. Non è solo energia pura, è quasi una possessione. Lo spettacolo delle mani è ipnotico, quando scalcia il seggiolino e schiaffa sulla tastiera piedi e sedere, restare fermi è impossibile, anche su una poltrona di cinema. «Quelli che non amano Whole Lot Of Shakin’ Going On hanno dei problemi», sostiene Lewis. È la verità.

Prima di incidere la “diabolica” Great Balls of Fire, con le sue spudorate allusioni sessuali, si fa un mare di scrupoli. Al profano può sfuggire, ma nel film passa l’audio del suo battibecco, registrato in segreto, con Sam Phillips, che deve convincerlo a piantarla, e a suonare. È un battibecco a sfondo teologico. «Ma può il Diavolo salvare le anime?», si cruccia la rockstar. È sesso puro, le ragazze del pubblico vanno fuori di testa. «Fai impazzire le ragazzine, cosa ne pensano le loro mamme?», chiede un giornalista al “sobillatore”. Risposta: «Non le ho mai incontrate».

Magari l’ostracismo del sessualmente corretto colpirà anche Jerry Lee Lewis, che nel 2019 ha perso l’uso della mano destra ma l’ha recuperato per testardaggine, come dimostra la gospel session del 2020 (registrata a Nashville con T-Bone Burnett) nel finale del film. Roman Polanski sconterà a vita il peccato di essersi portato a letto una scolaretta di quell’età. Il documentario di Ethan Coen rischia di essere contestato con la stessa foga con cui l’ala dura del femminismo boicotta i film di Polanski. Gli infiniti rei senza nome di cui non sappiamo, però, dormono e dormiranno sonni tranquilli. E comunque è bene saperlo: perdersi Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind vuol dire farsi del male. Come perdersi Elvis.

 

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