A settembre è scomparsa Amélie Oksenberg Rorty, una filosofa la cui storia è per molti versi esemplare, a partire dal fatto che non è conosciuta o, almeno, non quanto dovrebbe. Infatti Amélie Rorty ha dato contributi importanti a una quantità di dibattiti dalla filosofia della mente, all’etica e alla storia della filosofia, oltrepassando con pervicacia, disinvoltura e competenza i rigidi confini disciplinari entro i quali sono relegati gli studi filosofici.

Amélie era nata in Belgio nel 1932 da una famiglia ebrea polacca, emigrata in Virginia. Si era laureata all’università di Chicago in giovane età e aveva conseguito il dottorato a Yale in filosofia e a Princeton in antropologia. A Yale aveva conosciuto e sposato il filosofo Richard Rorty, dal quale ebbe un figlio. La sua storia accademica non è priva di riconoscimenti prestigiosi. Amélie ha prestato servizio in università importanti, ma il carattere movimentato della sua vita accademica denuncia una certa irrequietezza. Forse questo è il marchio indelebile dell’esperienza della migrazione, ma Amélie ne ha fatto una tecnica filosofica. L’irriverenza per il canone – per la tradizione, ma anche i dibattiti di “tendenza” – era un tratto distintivo del modo in cui Amélie si relazionava al mondo e interrogava i testi filosofici. Era guidata dall’interesse per i fenomeni di frontiera, quelli che nessuno rivendica perché cadono tra i recinti disciplinari. Ma soprattutto intendeva la filosofia come un modo di indagare i fenomeni, anziché il porto sicuro dove attraccare. Alle teorie filosofiche dalle ambizioni sistematiche preferiva l’esercizio puntuale di esplorazione e sebbene abbia frequentato con assiduità i classici della filosofia antica e moderna, non ha mai sposato nessuna dottrina.

Stati conflittuali

Conobbi Amélie Rorty a Cambridge nel 1995. Stavo svolgendo la dissertazione sul dilemma morale all’università di Harvard, che in quegli anni era l’avanguardia della filosofia morale e politica. Occupata com’ero a indagare i limiti del ragionamento e dell’appello alla coerenza di fronte ai dilemmi della scelta, mi colpì la riluttanza di Rorty a difendere le ambizioni della teoria etica al modo dei suoi colleghi di Emerson Hall, John Rawls, Robert Nozick, Derek Parfit, e Thomas Scanlon.

Soprattutto, mi colpì il modo in cui avvicinava gli stati conflittuali, alla ricerca di una loro diagnosi, piuttosto che di un modo per risolverli. Così imparai a guardare alla dissonanza e alla perplessità come opportunità per la deliberazione, anziché come difetti di razionalità o casi in cui il ragionamento si inceppa. Solo qualche anno più tardi mi divenne chiaro che questi insegnamenti rappresentavano indicazioni di metodo dai risultati rivoluzionari. Fui invitata al simposio della Society for Women in Philosophy in onore di Amélie Rorty, insignita del titolo di Distinguished Woman Philosopher of the Year, nel 2001. In quella occasione, Rorty presentò il suo lavoro filosofico come il tentativo di rimediare al danno imposto dalla separazione dell’etica dalla politica e dalla filosofia della mente. Una volta sancita questa separazione, la teoria etica si assume il compito di fornire i criteri per distinguere il bene dal male e prendere le decisioni giuste. Così, il lettore perplesso si affida alla teoria filosofica con l’aspettativa di ricevere istruzioni precise o, almeno, una procedura affidabile per scegliere nel migliore dei modi. Per Rorty questa aspettativa è mal posta, e non perché la filosofia sia sterile ma proprio per la sua vocazione pratica: per decidere in modo intelligente, bisogna confrontarsi con i propri limiti ma anche riconoscere che le condizioni di scelta sono profondamente influenzate da fattori sociali e politici e contingenze non sempre prevedibili.

I primi risultati di questo approccio riguardano fenomeni solitamente ritenuti paradigmatici dell’irrazionalità pratica, come la debolezza del volere o l’auto-inganno. Molti concordano con Harry Frankfurt che queste sono patologie della mente e comportano non solo la paralisi dell’azione ma addirittura la disintegrazione dell’identità. La virtù per eccellenza è la forza di volontà, considerata una forza aggregante dell’individualità. Si è ciò che si decide; si rimane se stessi mostrando risolutezza, adottando le proprie convinzioni senza riserve, rimanendo saldi sulle proprie posizioni. La debolezza del volere è quindi un difetto di integrità metafisica, prima che morale. Essa si manifesta nell’incapacità di tener fede a un principio, di mantenere stabilmente una intenzione sotto l’impulso disgregante di un’emozione o di un desiderio impellente.

Nell’auto-inganno l’agente mantiene credenze contraddittorie, spesso nel tentativo di arginare o evitare verità insopportabili. Si tratta di forme di irrazionalità pratica che espongono la fragilità e l’opacità della mente e mettono in pericolo l’agire cooperativo e i rapporti fiduciari. Come fidarsi di agenti instabili, incapaci di seguire il loro proprio giudizio e dar credito a sé stessi?

Condizioni socio-politiche

Nella prospettiva di Rorty, invece, queste non sono sempre patologie e comunque non sono mai solo patologie della mente. Per comprendere davvero questi fenomeni bisogna smettere di considerarli tragedie private ed esaminare le dimensioni socio-politiche del pensare e dell’agire. L’insistenza sul carattere morale e politico di fenomeni solitamente confinati nella mente conduce Rorty a una loro rivalutazione sul piano deliberativo. Anziché ostacoli all’azione, essi diventano risorse deliberative che vengono reclutate regolarmente nella pratica della razionalità. Certo, questo comporta discernimento: solo alcune forme di indecisione e di auto-inganno sono utili, ed è importante poterle identificare correttamente. A questo serve l’indagine filosofica. Ma il punto centrale è che certe vulnerabilità si dimostrano strumenti diagnostici utili per comprendere noi stessi e il contesto in cui siamo chiamati a operare. A certe condizioni, l’indecisione e l’autoinganno sono atteggiamenti utilizzabili in modo strategico.

Seguendo questa traccia, Rorty giunge a teorizzare l’importanza e la fertilità dell’atteggiamento ambivalente nella pratica deliberativa. In certe situazioni, l’unica risposta sensata e moralmente responsabile è l’ambivalenza.

Anziché uno stato di indecisione che dimostra un difetto di razionalità pratica o l’insufficienza di procedure deliberative, l’ambivalenza è il sapiente tollerare atteggiamenti contrastanti che ci tengono aperti a tutte le soluzioni possibili di un conflitto ancora in corso. È una risorsa cruciale che possiamo attivare nei casi in cui l’incertezza si protrae nel tempo e limita i modi in cui possiamo immaginare il futuro e dargli forma.

Nel corso di questi mesi abbiamo sperimentato quanto sia faticoso fare i conti con uno stato prolungato di incertezza. Una delle sorgenti di sofferenza più significative in questa condizione è proprio la sensazione di impotenza e di stallo, la mancanza di progettualità, il senso opprimente di un futuro negato. Rorty ci viene in aiuto, mettendo in luce due caratteristiche della deliberazione finora non pienamente esplorate.

In primo luogo, non bisogna pensare alla deliberazione come un esercizio intellettuale solitario. Si tratta, piuttosto, di impegnarsi in processi complessi e socialmente stratificati, che possono essere investigati solo attraverso una narrativa collettiva. Le strategie deliberative sono frutto di negoziazioni che avvengono in contesti sociali e politici concreti. In secondo luogo, le strategie deliberative sono strategie di improvvisazione nel senso che non seguono una procedura determinata, e proprio per questo sono capaci di sfruttare le contingenze in modi creativi. Il carattere improvvisato della deliberazione spiega la sua struttura dinamica: ogni fase della deliberazione apre nuove alternative e nuovi problemi. Una codifica normativa è perciò destinata presto all’obsolescenza. Per funzionare bene la deliberazione razionale richiede una sensibilità matura, capace di identificare i tratti salienti della situazione e rispondere in maniera adeguata agli incidenti di percorso.

L’ambivalenza come virtù

È in questo contesto che l’ambivalenza viene rivalutata come una virtù deliberativa, poiché ci predispone alla vigilanza e all’ascolto. D’altra parte, l’elogio dell’ambivalenza non nega la necessità di standard di correttezza, né giustifica un comportamento disimpegnato rispetto al futuro e agli altri. Al contrario, la comprensione dell’ambivalenza può comportare vantaggi epistemici e morali significativi. Anche quando sembrano riguardare aspetti superficiali del contesto, atteggiamenti ed emozioni ambivalenti rivelano i valori che guidano la scelta e anche gli aspetti di desiderabilità degli oggetti di scelta. Così si scoprono anche modi nuovi di gestire situazioni di emergenza, affidando alla sensibilità emotiva il compito di allertarci rispetto a nuove priorità.

In particolare, Rorty segnala le ambivalenze di tipo collaborativo, ovvero, quelle che emergono dalle relazioni personali intime che danno forma alle nostre identità. Queste forme di ambivalenza sono preziose perché indicano modi efficaci per affrontare il conflitto nella sfera pubblica, in aggiunta a compromessi e accordi. Le competenze e le strategie che si esercitano nel conservare un atteggiamento ambivalente basato su ragioni contrastanti eppure appropriate possono essere utilizzate consapevolmente nella deliberazione pubblica. Siccome ci spronano a una deliberazione condivisa possono essere annoverate tra le virtù civiche.

Nell’era pandemica, contrassegnata dall’incertezza e dalla richiesta pressante di certezze affidabili, le virtù civiche di Amélie Rorty sono un’eredità importante di cui conviene prenderci cura. Non ci consegnano alla rassegnazione verso un futuro inevitabilmente compromesso, ma aprono nuovi scenari deliberativi e collaborativi, puntando su risorse condivise finora inesplorate.

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