«Ehhh ma cos’è questa faccia triste, ti è morto il gatto?» In effetti sì, la gatta. Sei anni fa non avrei avuto questa faccia triste, ma sei anni fa non avevo nemmeno una gatta. Non solo: se qualcuno, con la stessa faccia triste che ho io adesso, mi avesse detto che gli era morto il gatto, avrei risposto «Mi spiace», ma avrei pensato qualcosa tipo “Eh vabbè, in fondo è solo un gatto”. E invece, oggi, eccomi qui, conciato come un Ecce homo di Antonello da Messina. Li ho sempre amati, gli animali, ma fino a sei anni fa il mio amore non era mai andato oltre il livello platonico e avevo evitato di impegnarmi in relazioni troppo serie con altre creature.

Cani? Troppe attenzioni, non ho tempo. Gatti? Mi piacerebbe, ma sono allergico. Poi, sei anni fa, nella mia vita ha fatto irruzione una ragazza e io mi sono ritrovato nella posizione dell’architetto Melandri di Amici miei che, pur di stare con la sua amata, si accolla le di lei due figlie, la governante tedesca e soprattutto Birillo, enorme e voracissimo cane di San Bernardo.

A me è andata meglio, nel pacchetto erano compresi solo due gatti: prendere o lasciare. Come si sarà intuito ho preso, entrando così a far parte di quel 37,3% (Rapporto Italia 2024, Eurispes) di italiani con un animale in casa che, in quasi quattro casi su dieci, è un gatto, il che, nel concreto, ha significato: essere buttato giù dal letto nel cuore della notte (con metodi da Stasi) per riempire ciotole di croccantini al cui odore nauseante non mi sono ancora abituato; versare litri di sangue, che avrei potuto donare all’Avis, a causa di morsi e graffi ricevuti senza alcuna ragione apparente; raccogliere chili di deiezioni ed ettolitri di vomito; assistere impotente alla meticolosa, inesorabile distruzione di alcune parti del prestigioso divano di lino e della signorile poltrona di velluto che gli sta di fronte, circondata da piante le cui foglie, sotto i 50 cm di altitudine, sono tutte mangiucchiate.

E l’allergia? Assente nei primi anni, tenuta a bada grazie alla frequente e approfondita pulizia della casa, si è poi evoluta in un’asma che ha reso necessario impedire ai felini l’accesso alla camera da letto.

Giudizi e pregiudizi

Eppure (sindrome di Stoccolma), nel tempo ho ricoperto con masochistico piacere i ruoli di: schiavo, suddito, zerbino, ilota, eunuco, toy boy, tiragraffi, massaggiatore, massaggiatore particolare, cuscino, cameriere, maggiordomo, uomo delle pulizie, facchino, chef, portantino, segretario, autista, infermiere.

Ho inoltre speso una quantità di soldi che fino a sei anni fa non avrei mai immaginato, cresciuto com’ero in un contesto sociale (paesello del sud Italia) che fatica ad affrancarsi dai retaggi di una cultura contadina che anche io avevo introiettato, secondo cui le bestie sono solo bestie, oggetti, utensili, cibo, cose a nostra disposizione, da usare per i nostri bisogni.

Una cultura la cui violenza, in passato spiegabile con la povertà, col tempo è stata interiorizzata diventando invisibile, un elemento del paesaggio quotidiano a cui non si fa caso, per cui è normale, ad esempio, tenere i cani alla catena, e si guarda con sospetto chi li fa entrare in casa o, addirittura, spende dei soldi per prendersene cura, roba da ricchi o da debosciati decadenti, e dove andremo a finire.

Li capisco, quei giudizi e pregiudizi, perché, fino a sei anni fa, mi appartenevano, inducendomi a condividere i commenti sarcastici o le battute argute di chi ironizzava su quelli che all’alba, in un’aiuola sotto la pioggia, aspettano che il cane si decida a produrre i suoi escrementi o che parlano del gatto come se fosse un figlio o, come la ricca signora nel film Gli Aristogatti (o, nella realtà, Karl Lagerfeld), lasciano la loro eredità ai gatti, manco fossero dei famigliari.

Senza arrivare a casi estremi come quello di Karl e Choupette, la verità (lo certifica ancora il rapporto Eurispes) è che sì, gli animali domestici sono “a tutti gli effetti componenti del nucleo familiare, anche in termini di cura e accudimento”.

Cura e accudimento, ad esempio, vuol dire che abbiamo fatto le analisi del sangue ai gatti tutte le volte che era necessario, finché è venuto fuori che il maschio aveva un tumore grosso come una mela e la femmina una grave insufficienza renale oltre a problemi cardiaci. E quindi il gatto è stato sottoposto a un intervento chirurgico (andato bene) e alla femmina hanno dato un paio di anni di vita e io mi sono ritrovato a: fare l’aerosol a un gatto recalcitrante e iniezioni sottocutanee all’altra, somministrare colliri, pillole per il cuore, pillole per l’asma (del gatto, no mia), medicinali per i reni e così via.

Con la mia fidanzata non siamo mai stati entrambi lontani da casa per più di un giorno né abbiamo più fatto una vacanza insieme, dovendo almeno uno dei due rimanere a prendersi cura della gatta.

E ora

E poi la gatta è morta. Per rispetto verso il me di sei anni fa, non sto qui a raccontare come se n’è andata, perché non potrei evitare la melensaggine di quei film smarmellati con due che si innamorano ma uno è malato terminale. Verso la fine era arrivata a pesare appena due chili e quattrocento grammi ma, per qualche paradosso quantistico (come quello di cui parla il fisico Carlo Rovelli in Buchi bianchi descrivendo certi buchi neri, piccolissimi fuori ma giganteschi dentro), quella cosetta tutta peli e ossa ha lasciato un vuoto enorme. Per non dire delle dimensioni del dolore.

E così, nei giorni successivi, ho scoperto che parlarne non era facile, perché quasi sempre voleva dire ricevere sguardi che sottintendevano un “E vabbè, dai, in fondo è solo un gatto”. Ovvero: “Non è mica un essere umano”. Ecco, credo sia a questo incrocio che la forma mentis a cui ero abituato si scontra con la necessità di ripensare il nostro rapporto con gli altri esseri viventi, evitando, ad esempio, di servirsi di questa scala Mercalli del dolore che stabilisce quanta sofferenza è socialmente accettabile provare a seconda di chi è morto, partendo dal presupposto che la vita di un essere umano vale in ogni caso più di quella di un animale: e se non fosse così?

Le cose già cambiano se, invece che un generico “valore della vita”, sulla bilancia ci mettiamo anche il valore del rapporto che si è creato con l’altro, che sia umano, gatto, cane o magari albero. Certo, occorre ridimensionare il nostro ego di specie, farsi un po’ da parte, provare a guardare le altre creature sforzandoci di non sentirci li mejo, ad esempio pensando gli animali non come oggetti di cui disporre a nostro piacimento ma come creature con la loro personalità, le loro esigenze, i loro diritti. Per cominciare questo esercizio di umiltà i gatti sono perfetti, molto meglio dei cani, il cui obbediente servilismo adorante non aiuta certo a rimpicciolire l’ego: nessuno riesce a farti sentire un nulla, un essere insignificante, un suddito come ci riescono i gatti.

Mi viene in soccorso il teorema di Louis C.K. “Of course! But maybe…” (“Certo! Ma forse…”): Of course… che se la casa sta andando a fuoco e devi scegliere chi salvare, salvi l’umano invece del gatto! But maybe… se l’umano è una persona orrenda che ti ha rovinato la vita e porta il colletto della polo alzato, magari un dubbio ti viene, no?

Per tornare al mio imbarazzo nel confessare il motivo di questa faccia triste ho scoperto (non che ci volesse Poirot) che gli unici in grado di capire sono quelli che ci sono già passati. Perché la morte della gatta è stato un dolore mai provato prima, e anche qui non credo sia giusto fare paragoni con ciò che si prova alla morte di una persona cara: sono due cose diverse ma con uguale dignità.

La perdita di un animale può essere un lutto a tutti gli effetti. E, per superarlo, aiuta avere il sostegno e la vicinanza degli altri, per questo, su suggerimento della mia fidanzata, ho smesso di specificare (appunto) a che specie apparteneva il morto, e a chi me lo chiedeva dicevo di avere avuto un lutto. Ha funzionato. Lo consiglio.

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