Nel film di Steve McQueen Shame, del 2011, un erotomane solitario interpretato da Michael Fassbender conduce le sue donne allo Standard Hotel, sull’High Line di New York, nella vana ricerca della trascendenza spirituale attraverso relazioni sessuali anonime.

Steve McQueen è troppo raffinato per deturpare il proprio lavoro con un sequel, eppure Shame 2 è  facilissimo da immaginare: avrebbe come protagonisti Don Trump Jr. e la sua ragazza Kimberly Guilfoyle, che per lasciarsi alle spalle una serie di sconfitte scopano in una asfittica stanza d’albergo che si affaccia sul fiume Hudson scintillante per i raggi del sole.

Se la prima versione di Shame si concludeva con il sesso più insoddisfacente che abbia mai visto in un film, il sequel inizierebbe con Kim e Don Jr. che concedono ai loro fan di vedere i giochetti e i divertimenti a cui hanno costantemente alluso durante la campagna elettorale, come due divorziati tra viaggi di potere e libido.

Si dice che Kimberly, a capo del fundraising di Trump, abbia alienato i finanziatori principali con i suoi costanti racconti sulla sua vita sessuale con Don Jr. Pare che abbia offerto ai maggiori finanziatori lap dance e “feste in vasca idromassaggio”. Per Kim, il sesso è transazione, ma è divertente: le transazioni sono divertenti. Vincere è divertente.

Il sesso come brand

Per Don Jr., la sua vita sessuale è una caratteristica importante per il suo brand, alla cui promozione ha lavorato duramente con le  camicie di flanella, i finti yee-haw da cowboy, i fucili decorati con slogan Maga (come il suo Ar-15, che ha un’incisione personalizzata con la faccia di Hillary Clinton dietro le sbarre sul caricatore).

Nessuna delle sue pose patriottiche sembrano convincenti. È vero che è cresciuto andando a caccia, ma cacciava con i suoi parenti nella Repubblica Ceca. Se vai a caccia in una riserva europea per miliardari, non è la stessa cosa che sparare agli scoiattoli degli Appalachi e cucinare una poltiglia stufata.

Don Jr. è riuscito stranamente bene a fingere di essere un normale vecchio americano con il portafucili e il pick-up con rimorchio. Di recente ha pubblicato una Gif del padre su una Mustang Gt del 1967 con un enorme turbina sul cofano, che mischia la campagna di Trump del Maga con le Hot Wheels e le fantasie di vendetta adolescenziali.

Nell’immagine, il presidente Trump punta una pistola da un buco nel parabrezza con il braccio destro, il sinistro appoggiato sulla portiera lato guidatore come se fosse una celebrità Nascar. Da questo modo di atteggiarsi fragile e pieno di sé discende la relazione di Don Jr. con Kim Guilfoyle.

Kim è una ragazza per metà irlandese che è cresciuta nel mio stesso quartiere di San Francisco e ha frequentato la mia stessa scuola parrocchiale, Mercy, la scuola che hanno fatto tutti i miei vicini irlandesi e che ha il più alto tasso di gravidanze tra adolescenti in California.

​Kim è una delle tante ragazze che ho conosciuto da giovane. Audace, aggressiva, cattiva, violenta, opportunista e troia: e questi non sono gli attributi peggiori. Non le do la colpa per nessuno di questi. È che conosco la tipologia di persona. Non conosco invece il tipo di Don Jr. Lui viene dai soldi e dal potere, e non ne ho esperienza personale.

Il machismo Maga

Conosco però – e bene – il tipo di uomo, il tipo di mascolinità che Don Jr. emula e finge di incarnare. Il machismo Maga è reale: fa appello agli uomini che sentono che ciò che li fa grandi, ciò che dovrebbe renderli grandi, li ha invece resi progressivamente irrilevanti in una società senza posti ben pagati per il lavoro non qualificato, e la cui cultura dominante, e i media mainstream, non solo non danno più valore alla mascolinità, ma addirittura la chiamano “tossica”!

Molte delle persone con cui sono cresciuta, il tipo di ragazzi con cui Kim si sarebbe divertita, amano Trump. Hanno una pistola. Disprezzano la politica dell’identità e lo snobismo liberale. Credono in ciò che pensano come responsabilità individuale, anche se sono stati tutti cacciati da San Francisco, dai lavori ben retribuiti, e non producono quel genere di reddito che potrebbe beneficiare delle agevolazioni fiscali di Trump.

Alcuni di loro non sono nemmeno bianchi e comunque amano Trump. Credono che le idee liberali sulla razza, l’identità e l’uguaglianza siano delle ruffianate, offensive, persino razziste. Questo modo di vedere le cose mi affascina. Continuo ad avere Facebook per seguire le scelte politiche delle persone con cui sono andata a scuola durante l’adolescenza. Nonostante le differenze politiche, sono ancora miei amici.

Sono arrivata a credere che Trump per i miei amici di infanzia sia come una radio che passa solo i classici del rock: la musica che metti su per sentirti un duro, per sentirti bene, per alzare il volume e sentir risuonare una versione attuale e viva della tua cultura. 

Molte di queste persone pensano che chiudere l’economia non sia stata una cosa buona e giusta; hanno perso il lavoro e hanno visto i loro risparmi diminuire. Si sono convinti che un voto a Biden sia un voto al Covid. Chi voterebbe per il Covid? Un voto a Trump è sembrato, per gli elettori di Trump che conosco, come un “no” alla pandemia.

Certamente uno non può votare a favore o contro il Covid. Il Covid è qui. Trascende la politica. L’illusione che Trump possa uscire con aria spavalda dalla pandemia, passarci sopra con la sua Mustang con la turbina sul cofano, è profondamente affascinante per qualcuno.

Capisco questo genere di spavalderia. A volte funziona: quando funziona, in inglese si dice speaking it into existence, “dirlo finché non diventa realtà”. A forza di ripeterlo succede ciò che vuoi che accada. Quando ha funzionato per Trump, dopo le elezioni del 2016, quelli che non volevano accadesse sono rimasti sbalorditi e traumatizzati. Trump ce l’aveva fatta. L’ha ripetuto finché non è diventato realtà, e la spavalderia con cui ci è riuscito è stata l’energia che il figlio Don Jr. e la sua ragazza Kim qualche tempo dopo hanno elaborato. Hanno tratto piacere e godimento dall’“avere i liberali in pugno”.

Ora non stanno più vincendo. Non hanno perso soltanto le elezioni presidenziali, ma anche la loro immagine di vincitori. Sono perdenti e la loro sconfitta è arrivata in uno scenario abietto che nessuno poteva immaginare.

​Come quando la campagna di Trump ha prenotato la conferenza stampa per dichiarare la frode elettorale, notoriamente non nel lussuoso hotel Four Seasons di Philadelphia, ma presso una ditta di giardinaggio con lo stesso nome, Four Seasons Total Landscaping, in una squallida area industriale ai margini della città, dalla parte opposta della strada rispetto a un crematorio e a un sexy shop.

Non avrei mai pensato che l’immagine finale dell’amministrazione Trump sarebbe stata quella di Rudy Giuliani al podio, un tubo per l’irrigazione montato a parete accanto, una conferenza stampa incastrata tra un negozio che vende vibratori e un’impresa che brucia corpi umani.

L’epilogo di Shame 2

Se il rapporto di Kimberly e Don Jr. in Shame 2 già si caricava di tensioni di vario tipo, l’incidente al Four Seasons Total Landscaping complica ulteriormente le loro dinamiche sessuali. Ci sarà rabbia. Risentimento. Lacrime. La negazione volontaria e atletica della sconfitta. Voli di piacere che liberano i due dalle umiliazioni individuali e collettive.

Ogni fuga di libido sarà breve, proprio come il sesso tende ad essere breve. Crolleranno esausti e assonnati nelle loro vestaglie di spugna bianche dello Standard Hotel, o semplicemente nudi. Si sveglieranno e urleranno al personale del servizio in camera che sta impiegando troppo tempo a preparare il loro ordine. Si faranno una doccia, e poi faranno un altro giro sulla giostra che li fa sentire reciprocamente vincitori.

Riesco a immaginare questo film, con il meraviglioso, benché sobrio, stile di regia di Steve McQueen. Don Jr. in piedi alla finestra della stanza d’albergo sbatte le palpebre al sole invernale sull’Hudson. Kim rimprovera il servizio di pulizie. La cosa più difficile da immaginare è il finale. L’originale, Shame, finiva con il volto cupo di Fassbender in un rapporto a tre, rinvigorito dalla droga, con due sconosciute, tendendo a un nirvana senza speranza che non raggiungerà mai.

La conclusione è che lui è Sisifo, un uomo impegnato in un lavoro senza fine, in una guerra infinita. Non credo che Don Jr. abbia la stessa tempra. Kim potrebbe avercela invece. E dunque il finale di Shame 2 potrebbe essere una scena di lei che in silenzio si veste, mentre Donny, profondamente addormentato, sbava sul cuscino dell’hotel.

Sgattaiola fuori dalla stanza. Prende l’ascensore ad alta velocità fino al piano terra. Si ferma rapidamente alla reception per accertarsi che le spese extra siano addebitate a Don Jr. e non a lei. I titoli di coda scorrono mentre entra nel Meatpacking District, superando le boutique di Prada e Gucci e sgomberando il marciapiede di gente che fa shopping, tutti intimoriti da lei.

E non perché è l’aggressiva e inarrestabile Kimberly Guilfoyle, pronta a distruggere chiunque con la sua ambizione, il coraggio e il suo istinto omicida; ma perché non indossa la mascherina.

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