L’antifascismo ha svolto una funzione essenziale dopo la Seconda guerra mondiale non solo perché ha, banalmente, protetto la libertà civile e politica dalle svolte autoritarie a destra (anche in anni in cui gran parte dei paesi dell’Europa mediterranea erano governati da regimi neo o parafascisti, dalla Spagna al Portogallo alla Grecia), ma perché ha aggiunto alla concezione e alla pratica della democrazia alcune precise sfumature che altrimenti le sarebbero mancate.

Occorre ripartire da qui. La democrazia antifascista e la sua Costituzione si difendono oggi proprio insistendo su questo punto, piuttosto che denunciando il pericolo del ritorno del fascismo-regime, ossia del cosiddetto “fascismo storico”.

Occorre insomma domandarsi: che cosa perdiamo, se si afferma la democrazia afascista? Ci va bene vivere in una società in cui la propria condizione non può essere cambiata? In cui chi è al governo non deve rispondere fino in fondo delle proprie decisioni? Davvero la democrazia non è che una successione cronologica di maggioranze senza effettiva opposizione fuori dal Parlamento o con una minoranza parlamentare impotente?

La convinzione degli autori di questo libro è che, se il disegno di lunga durata di cui Meloni è oggi l’interprete più autorevole dovesse mai realizzarsi in Italia, a essere duramente colpiti non sarebbero solo i regolamenti parlamentari e le norme che assicurano un efficace bilanciamento dei poteri, ma le esistenze di ognuno di noi, nella vita di ogni giorno.

L’obiettivo dell’acquiescenza

La democrazia afascista prepara un mondo gerarchico e statico, benché in perenne movimento: una società della cieca deferenza, dove c’è chi è in alto e c’è chi è in basso, e dove chi è in basso, persuaso che le sconfitte sono solo eventi personali, deve piegare il capo, rinnegando un secolo di conquiste della democrazia e del movimento dei lavoratori.

Nei suoi comizi Giuseppe Di Vittorio era solito rivendicare che le organizzazioni sindacali avevano anzitutto insegnato ai contadini che non bisognava togliersi il cappello davanti al padrone in segno di rispetto. La democrazia afascista promette invece di reinsegnare ai cittadini comuni (ora chiamati “la gente” o “il popolo”, con due appellativi che occultano deliberatamente la loro condizione di ultimi detentori della sovranità repubblicana) a mostrarsi umili e acquiescenti davanti ai più forti.

Il grande nemico della democrazia afascista è infatti l’eguaglianza, sociale e politica. A questo fine, con grande abilità, essa ha imparato a portare avanti la propria battaglia a favore di un nuovo sistema di gerarchie, appropriandosi del linguaggio economico liberale e in particolare del concetto di “merito”: che oggi non significa più valorizzazione dei talenti, contro il privilegio, attraverso le opportunità che la democrazia promette di offrire a tutti (“rimuovendo” gli ostacoli, quando necessario), ma disparità di condizioni e accessi a seconda delle doti naturali di ciascuno (il fattore fortuna, che non si può cambiare, ma solo accettare).

La democrazia afascista, infatti, punta a diseguagliare le persone e a adeguare la società e le istituzioni politiche a una presunta differenza radicale di condizioni che sarebbe inscritta nelle cose, oggettivamente. In ciò il suo contrasto con l’Illuminismo e con la modernità nata dalla Rivoluzione francese non conosce compromessi, anche se non si serve più degli strumenti violenti che portarono Mussolini al potere negli anni venti (come scrisse il grande storico francese Jules Michelet, lo spartiacque del 1789 aveva affrancato una volta per tutte gli uomini dal mito del peccato originale e della grazia, consegnando a ciascuno di loro un avvenire da costruire liberamente).

Le democrazie moderne hanno alimentato un’idea di futuro come speranza progettabile, un’ideale che allena a credere che l’eguaglianza di condizione abbia un valore, che i sacrifici che ci addossiamo oggi non sono una fatica di Sisifo che ci riporta al punto di partenza. Speranza progettabile sta insieme a eguaglianza delle opportunità e a dinamismo. Riducendo le possibilità per la maggior parte dei cittadini, la democrazia afascista ci prepara un mondo povero di futuro.

Così facendo, però, indica anche la strada per contrastare Meloni e i suoi sodali a chi non si è ancora rassegnato al declino dei principi di eguaglianza politica che i cittadini italiani hanno conquistato con la Resistenza.

Ciò che preserva e fa prosperare le democrazie è la loro indispensabile proiezione in avanti. La democrazia è infatti indeterminazione e sperimentazione senza fine perché, come si è detto, non concepisce nessun punto di approdo definitivo e nessuna classe da difendere; proprio per questo – nello stesso momento in cui ha bisogno di situarsi rispetto al passato (dato che idee, valori e procedure non nascono nel vuoto) – non può rinunciare a rivolgere continuamente lo sguardo all’avvenire, per quanto non concepito in termini messianici, ma di problemi concreti da elaborare e da risolvere assieme.

Le passioni tristi

Il progressivo indebolimento della democrazia antifascista messo in atto negli ultimi decenni ha già considerevolmente ristretto le opportunità per i cittadini comuni nello stesso momento in cui ha contribuito attivamente a una nuova oligarchizzazione della società. Questo generalizzato sentimento di impotenza si è così tradotto in una vera esplosione di quelle che Baruch Spinoza definiva le “passioni tristi”: invidia, risentimento, frustrazione – le passioni che danno ossigeno al populismo. Gli elettori avvertono chiaramente di essere stati privati di qualcosa, fosse anche solo la speranza in una vita migliore.

Ma, di fronte a una sinistra succube da oltre trent’anni delle ideologie economiche neoliberali e protagonista attiva della dismissione del pubblico nelle politiche sociali di cittadinanza, gli stessi elettori si indirizzano sempre più consistentemente verso una destra che non esita a farsi portavoce delle più sguaiate proposte antisistema e che, proprio per questo, sembra dare meglio espressione a un malessere che i cittadini sperimentano ogni giorno sulla propria pelle, ma di cui faticano a riconoscere le vere cause.

In tal modo, una sinistra che ha smesso da tempo di fare la sua parte (perché è anch’essa, troppo spesso, prigioniera delle medesime concezioni avaloriali, ipermaggioritarie, notabiliari e aconflittuali della democrazia che si riscontrano a destra) sta spianando la strada a una revisione afascista della carta costituzionale (presto forse anche nella forma).

Il potere degli elettori

Contro questa asfissia, la democrazia deve con forza rilanciare la carta del futuro. Si tratta, insomma, di “scatenare” la democrazia nel senso etimologico della parola: liberarla dalle catene che paralizzano la sua azione e che da troppo tempo privano i cittadini degli Stati occidentali di un avvenire, fino a farli dubitare che la politica sia uno strumento efficace a cambiare la loro condizione.

Credere nel proprio potere è la scommessa forse più ardua, ma anche la più urgente, poiché non si dà democrazia se gli elettori non avvertono e non coltivano il valore della loro libertà e della loro autorità come singoli e come collettivo. La subalternità del potere politico alle forze e alle dottrine economiche è parte di questo problema e contribuisce a rendere più ardui da recidere i vincoli che tengono prigionieri i cittadini. La democrazia afascista è invece lo strumento costituzionale attraverso cui si realizza la rivincita della gerarchia.


(tratto da Democrazia afascista, Feltrinelli, 2024)

© Riproduzione riservata