In pochi, piccoli paesini sulle pendici valdostane del monte Rosa, la cucina franco-provenzale si mischia a quella tedesca. Sono i villaggi dei walser, popolazione germanica che dal Medioevo si è stabilita attorno al massiccio più esteso delle Alpi. Oggi, alcune tracce della comunità alemanna resistono ancora nelle valli piemontesi dell’Ossola e del Sesia e nella Valle del Lys, o Valle di Gressoney, in Valle d’Aosta, la regione più piccola d’Italia, circondata da monti che la separano dalla Francia e dalla Svizzera.

La storia

Quando all’alba il sole tinge di rosa la montagna che proprio da quel colore prende il nome, una minuscola realtà si risveglia. Qui si parlano il Titsch o il Töitschu, dialetti di origine germanica, che si distinguono dal classico “patois”, la “lingua delle mani”, parlata nel resto della regione. Il caso dei walser in Valle d’Aosta è una storia che parte da molto lontano.

Originari del canton Vallese (da cui, solo a partire dal dopoguerra, prendono il nome), secondo le ricostruzioni storiche si spinsero sulle pendici del Rosa alla ricerca di nuovi pascoli, incentivati dai signori territoriali dell’epoca, che garantivano un vantaggioso trattamento fiscale per coloro che avessero voluto “addomesticare” la montagna.

La posizione ad alta quota degli insediamenti era mitigata dal clima caldo che caratterizzava il basso Medioevo: la maggior parte dei valichi restava percorribile tutto l’anno, grazie alla dimensione ridotta dei ghiacciai. Con la piccola glaciazione le cose cambiarono, ma i walser riuscirono ad adattarsi ai grandi freddi anche grazie alla loro abilità da commercianti. Piccole comunità che nella tradizione folcloristica si definiscono autarchiche, ma che in realtà sopravvissero proprio per merito di contaminazioni e scambi con i vicini svizzeri e piemontesi.

La società

Da Pont-Saint-Martin, ultimo paese nella valle centrale, al confine con il Piemonte, inizia la strada per la valle del Lys, il torrente che l’ha scavata quando ancora era tutto un ghiacciaio. Dopo qualche tornante, si raggiunge Issime, paese di tradizione walser che oggi non supera i 500 abitanti. Qui, l’occhio cade sull’architettura particolare di alcune case, interi villaggi diversi dalle abitazioni di tradizione provenzale. Piccoli raggruppamenti di edifici spesso rialzati dal terreno tramite colonne a forma di fungo, con il gambo in legno e una grande losa in pietra a fare da cappello.

Evitare che il granaio, detto stadel, poggiasse direttamente sul terreno, serviva a mantenere il raccolto lontano dai topi e dall’umidità. Tipica è anche la presenza di piccole logge utilizzate per l’essiccatura della segale, con cui non si faceva solo il pane, ma anche minestre e una sorta di polentina molle, l’hannetu. Le stesse case si ritrovano risalendo la valle, fino a raggiungere i comuni di Gressoney Saint-Jean e Gressoney La Trinité, sempre di tradizione vallese, ma per certi aspetti diversa da quella della vicina Issime.

Due realtà distinte

Primo fra tutti la lingua: se a Issime il dialetto è il Töitschu, a Gressoney si parla una variante diversa, il Titsch. Ancora oggi le due comunità sono molto legate al proprio idioma, un tempo unica parlata in quelle zone. La differenza tra le due è notevole, tanto che, si dice, il parroco di Issime dovesse ricorrere a un interprete per comprendere le confessioni dei fedeli gressonari.

Anche nella tradizione gastronomica si riflettono importanti differenze tra le due comunità. Un buon esempio è l’affumicatura. Nel saggio I codici della cucina issimese di Mariangiola Bodo, Michele Musso e Alessandra Sarasso, contenuto nel libro Cultura dell’alimentazione a Issime (Tipografia Valdostana), si fa riferimento alla tecnica di affumicatura della carne, con l’obiettivo principale di conservarla più a lungo, identificandola come una pratica caratteristica solo della zona di Gressoney. I walser di Issime, infatti, non ne avrebbero avuto bisogno perché il clima più temperato (circa 400 metri di dislivello in meno) consentiva una via più semplice, l’essiccazione.

Contaminazioni

La posizione delle due comunità ha fatto sì che entrassero in contatto con popolazioni diverse. Lo si capisce bene dalle ricette tradizionali, che oltre a differenziarsi dalla cucina franco-provenzale che domina in tutto il resto della regione, si distingue anche tra i due gruppi. «Il commercio dei prodotti d’alpeggio è stato fondamentale per queste comunità» spiega Michele Musso, veterinario, ricercatore e presidente dell’associazione culturale Augusta di Issime. «È proprio venendo in contatto, nel caso degli issimesi, con il Piemonte che il riso è entrato a far parte della cucina tradizionale».

Un esempio è la Fessilsüppu, zuppa di fagioli con formaggio e riso, ingrediente tipico piemontese, ma molto poco usato nella tradizione valdostana. I piatti della gastronomia gressonara, invece, portano i segni del loro più stretto contatto con i vicini svizzeri tedeschi. I tipici gnocchetti germanici si ritrovano come chnéffléne tra le ricette di Gressoney. È importante specificare, però, che ingredienti come il mais e la patata, dai più considerati parte della tradizione, sono stati tra gli ultimi ad arrivare, cambiando, ancora una volta, una cultura gastronomica in continua evoluzione.

Punti di contatto

Nonostante le due popolazioni abbiano seguito un percorso di contaminazione che le ha portate in parte a differenziarsi, ancora oggi osservano alcuni tratti comuni. Un esempio è il valore tipico attribuito al latte, spesso di capra, non solo come elemento di partenza per la produzione di formaggi, ma anche come ingrediente quotidiano, per la preparazione di zuppe, come il Dickhje Réis, sorta di risolatte tipico dei giorni di festa, o come bevanda, sotto forma di sieri, da abbinare ai pasti.

Alcuni piatti tipici, come i sanguinacci, riflettono l’importanza che queste comunità tutt’oggi attribuiscono al maiale. Da sempre è l’animale della festa, più di bovini e ovini, come avviene anche in Germania. Lo si macellava in inverno, quando anche i membri della famiglia che lavoravano in alpeggio o all’estero erano presenti. Le sue carni si lavoravano molto di più rispetto agli altri animali da allevamento, per produrre salumi e salsicce.

Cosa resta

Oggi, degli antichi walser restano le abitazioni, ristrutturate e a volte anche trasformate in accoglienti bed&breakfast per le migliaia di turisti che visitano la valle durante tutto l’anno. Restano i libri di cucina, a testimonianza delle differenze e dell’evoluzione gastronomica nel tempo. Resta la lingua che con grande sforzo, le vecchie generazioni tramandano ai più giovani e, infine, restano coloro che ancora si identificano come walser, proteggendo la memoria di storie, che parlano di migrazioni, incontri e contaminazioni.

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