Lou Reed amava festeggiare il suo compleanno. A volte le feste erano grandi e turbolente, si svolgevano in sale da pranzo private con dozzine di amici, per lo più musicisti, attori, registi e artisti. C’erano sempre fotografi a disposizione, mi vengono in mente Ralph Gibson e Mick Rock. Invitava anche i compagni del corso di Tai Chi, che non sapevano quanto Lou fosse famoso. La prima volta che sono andati, si sono grattati il capo cercando di capire come il loro amico di arti marziali conoscesse Willem Dafoe o David Bowie.

Se fosse ancora vivo, il 2 marzo sarebbe il settantanovesimo compleanno di Lou Reed. Dalla sua morte nel 2013 il mondo ha perso otto anni della sua arte, della sua musica, dei suoi pensieri sulla vita e del suo modo unico di vedere le cose. Almeno Lou ha scampato il Covid-19 e l’incubo dei quattro anni di Trump. Posso solo immaginarmi Lou che lancia qualcosa allo schermo del computer e si mette a urlare contro quel figlio di puttana.

Politicamente Lou Reed è sempre stato uno schietto progressista. L’album New York è stato un ottimo esempio. Lou ha scritto in modo diretto di corruzione e odio razziale. Non aveva peli sulla lingua e non si faceva prendere in giro da nessuno. Il suo rapporto con la stampa e i giornalisti era noto. Di tanto in tanto però un giornalista intelligente si presentava con delle domande decenti e Lou si rallegrava. Sfortunatamente, di solito si trattava di stanche variazioni su “Com’era Andy Warhol e perché l’hai cacciato dai Velvet Underground”. Oppure, “Perché hai fatto così tanto uso di droghe?”.

All’inizio Lou si è costruito un muro intorno per tenere fuori il pubblico e la stampa e proteggere la sua vita privata. Come fotografo e regista ho lavorato con molte persone famose, conosco questa sindrome. Le celebrità hanno bisogno di questo muro per sopravvivere. La cosa particolarmente difficile per Lou era che la sua musica e i suoi testi toccavano le persone così nel profondo che queste sentivano di conoscerlo personalmente, quando ovviamente non era così. Chi di noi lo conosceva come persona e come rockstar, era a conoscenza di un lato molto umano.

Quando mio padre è morto, nel settembre 1996, stavo lavorando al mio documentario sulla vita di Lou, Lou Reed: Rock & Roll Heart. Lou non mi ha detto molto sulla morte di mio padre. Non ne aveva bisogno. Conoscevo abbastanza il suo capolavoro sul tema della morte, Magic and Loss. L’album, scritto principalmente per il suo amico Doc Pomus, il grande cantautore morto di cancro, è indiscutibilmente uno degli album rock più potenti con a tema la morte. Pochi musicisti affronterebbero il tema della morte e del morire, figuriamoci dedicarvi un intero album. Ma Lou era hardcore.

Quando arrivò l’autunno e le giornate si fecero più buie e più fredde, ho fatto del mio meglio per andare avanti con la mia vita, ma Lou poteva dire che non ero il solito. Un giorno all’inizio di novembre mi ha chiamato con un’idea: «Ho un biglietto in più per l’Italia, in prima classe. Mi hanno invitato a un festival di poesia a Conegliano. Dovresti venire con me. È tutto pagato. Penso che sarà divertente». Questo era il modo in cui Lou diceva: so che stai attraversando un periodo difficile...partiamo per un’avventura e distogli la mente dal tuo lutto.

L’incontro con Pivano

Qualche settimana dopo ho preparato i vestiti di una settimana, ho preso il mio cappotto preferito di cashmere nero di Armani e sono andato all’aeroporto con la limousine di Lou. (Un cappotto, a proposito, che mi è stato rubato a una festa non così eccezionale a cui ho partecipato alcuni anni dopo ... e ancora oggi mi pento di aver partecipato a quella dannata festa!)

Il volo è stato estremamente comodo: sedili completamente reclinabili e qualche bicchiere di champagne prima di addormentarci fino all’arrivo in Italia. I ragazzi del Conegliano Festival erano ansiosi di fare felice la loro star e le nostre stanze erano bellissime. Presto abbiamo incontrato alcuni degli altri talenti che erano stati invitati al festival della poesia, tra cui gli scrittori Mark Leyner e Jay McInerney. Ma la persona che ha davvero reso l’esperienza storica è stata Fernanda Pivano, l’icona letteraria genovese, famosa per aver introdotto i lettori italiani ai lavori di Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Dorothy Parker, William Faulkner, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William S. Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e Richard Wright. Fernanda impazziva per Lou e anche Lou la adorava. Abbiamo passato ore al bar e a cena ad ascoltare Fernanda, con le occasionali traduzioni di Enrico Rotelli, il suo abile assistente all’epoca. Fernanda ha riempito la serata con i racconti della sua vita, le sue visite in carcere per difendere la parola scritta e tutte le fantastiche leggende letterarie che ha conosciuto, aiutato e promosso.

Fortunatamente la settimana era stata organizzata con abbastanza tempo libero per una gita in giornata a Venezia. Sapendo che i treni italiani non aspettano le rock star e il loro entourage, in qualche modo ho trascinato tutti alla stazione giusto in tempo per comprare i biglietti e correre attraverso le porte del treno che si chiudevano. Leyner, McInerney e lo scrittore Guy Lesser, che dichiaravano di conoscere Venezia «molto molto bene» si sono uniti al nostro gruppo, insieme ad alcune vere groupie dell’hotel.

Venezia era meravigliosa e fotogenica come da tempo immaginavo che fosse. Novembre era sgombro di turisti e i ristoranti erano accoglienti. Guy Lesser si è rivelato un gioiello di guida, conosceva tutte le chiese segrete e i dipinti nascosti che le guide turistiche di proposito omettono perché sono troppo delicati per sopportare orde di turisti. Forse solo Peggy Guggenheim o John Malcolm Brinnin avrebbero potuto darci un tour migliore di questa spettacolare città.

Anche Lou era un fotografo straordinario e dedicato. Abbiamo passato la maggior parte della nostra giornata a Venezia a fotografare la città perché nessuno di noi aveva mai visto le sue antiche strade e i suoi canali tranquilli. Ci sentivamo come esploratori mentre ci fermavamo a ogni nuovo ponte, inquadrando con cura la composizione perfetta e aspettando pazientemente che una gondola vuota entrasse nell’inquadratura. Nel mio archivio ho le immagini che ho scattato quel giorno molto speciale, ma la mia foto preferita è quella che mi ha scattato Lou. Sorrido alla macchina fotografica, ho un buffo cappello nero e il mio cappotto di Armani preferito e alle mie spalle c’è l’inconfondibile paesaggio di Venezia.

Heroin acustica

Lou era l’“atto” conclusivo del Festival di Conegliano e gli era stato assicurato che non avrebbe dovuto cantare, ma che gli sarebbe stato chiesto solo di leggere alcuni testi delle sue canzoni. Dopotutto i suoi testi erano poesia, senza dubbio. L’auditorium era gremito, solo posti in piedi, e tutti erano entusiasti di vedere Lou salire sul palco. Avevo caricato la videocamera, felicissimo di riprendere le immagini di Lou che leggeva alcune delle sue opere per il mio documentario. A lato del palco Lou poteva vedermi in prima fila e capivo dal suo sorriso appena accennato che era meravigliato del fatto che fossi riuscito a posizionarmi, ancora una volta, esattamente dove avrei potuto ottenere le riprese migliori.

Lou è salito sul palco tra grida di approvazione e applausi. Con grazia ha letto i testi di alcune delle sue canzoni. Poi all’improvviso, come dal nulla, è apparsa una chitarra, trovando rapidamente la sua strada attraverso il palco verso il musicista Eric Andersen, che era in piedi di lato. Eric timidamente ha teso la chitarra a Lou... che non aveva altra scelta che prenderla. La folla urlava per l’eccitazione e una sedia di legno fu portata al centro della scena. Lou Reed allora si è seduto, ha accordato alcune corde... e poi ha eseguito la più eccezionale versione acustica che io abbia mai sentito della sua iconica Heroin. L’ha suonata per questa piccola audience di poche centinaia di persone come se si stesse esibendo in uno stadio di 100mila fan. Straordinario.

Abbiamo utilizzato una clip di questa interpretazione di Heroin e alcuni altri scatti stupendi del festival di Conegliano in Lou Reed: Rock and Roll Heart. Anche Fernanda compare in una scena grazie alle riprese che ho registrato durante quella settimana meravigliosa. Il titolo del film è stata un’idea di mia moglie Karin. Lou Reed aveva un cuore rock and roll.

Quando abbiamo vinto il Grammy Award per il film, che viene assegnato al regista e al protagonista del documentario musicale, ricordo che ho chiamato Lou a New York dal backstage. Ho urlato a un cellulare preso in prestito: «Lou, abbiamo vinto il Grammy». E Lou: «Timmy... non mi prendere per il culo! Veramente?». È incredibile ma sarebbe stato l’unico Grammy Award di Lou Reed. L’inizio della canzone di Lou Reed Rock and Roll Heart. Non mi piace l’opera e non mi piace il balletto, e i film francesi della new wave non mi prendono. Forse sono solo scemo, perché lo so che non sono intelligente. Ma dentro di me, in fondo, ho un cuore di rock ’n’ roll. Sì, nel profondo ho un cuore di rock 'n' roll.

Di sicuro ce l’aveva.

 

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