Il De rerum natura di Lucrezio si conclude con una grandiosa descrizione della peste di Atene del 430 prima della nostra era, e rileggendola oggi ci accorgiamo di quanto cammino abbia fatto la medicina negli ultimi due millenni e mezzo: in parte, anche grazie all’opera divulgativa dello stesso Lucrezio, che influenzò nel 1649 l’avveniristico studio di Giovanni Alfonso Borelli Delle cagioni di febbri maligne della Sicilia negli anni 1647 e 1648, in cui si individuavano le fonti del contagio in «lucreziani semi di pestilenza», oggi chiamati virus e batteri.

Fino ad allora l’ignoranza popolare attribuiva le epidemie all’azione divina, per placare la quale si poteva solo pregare o fare scongiuri. Ancor oggi c’è chi continua a pensarla allo stesso modo: papa Francesco, ad esempio, che il 27 marzo scorso, in una piazza san Pietro deserta, implorò inutilmente il suo Dio di «non lasciarci in balia della tempesta», e per scaramanzia brandì un amuleto sacro, altrettanto inutilmente usato nella pestilenza romana del 1522, nella forma di un crocifisso “miracolosamente” scampato nel 1519 all’incendio di san Marcello al Corso.

Ma non sono state queste amenità, e meno che mai le assurdità dei negazionisti e dei complottisti del Covid-19, a permettere di contenere le vittime in maniera incommensurabile rispetto non soltanto all’antichità, ma anche alla Spagnola di inizio Novecento, che ne fece decine di milioni. È stata invece la medicina moderna, pur con tutte le pecche e le impreparazioni del Sistema sanitario nazionale, e nonostante la gran confusione prodotta dal protagonismo mediatico di un’équipe di vanitosi medici opinionisti.

Se avessimo tenuto in precedenza gli occhi aperti e le orecchie dritte, avremmo potuto affrontare in maniera ancora più adeguata il Coronavirus, e il nostro primo obiettivo dovrebbe ora essere di non arrivare altrettanto impreparati alle prossime emergenze, per non ripetere gli errori già fatti. Non sembra invece che lo stiamo facendo: sicuramente, non nella misura necessaria per ripensare alla radice il sistema sanitario, in generale, e le misure di prevenzione e di contenimento delle epidemie, in particolare.

Più che il pur elevato numero di vittime, che purtroppo cessano di impressionare quando diventano astratte cifre statistiche, ad attirare l’attenzione e a sollevare le proteste dei cittadini sono stati i concreti effetti sociali ed economici della pandemia, e in entrambe le ondate del 2020 il desiderio e l’augurio più diffusi riguardavano il “tornare a essere com’eravamo prima”, come se una buona parte degli effetti deleteri del virus non derivasse proprio dal nostro “essere com’eravamo prima”. La più sorprendente reazione popolare è stata causata dai provvedimenti di confinamento, e si è sfogata negli animaleschi assalti ai luoghi pubblici immediatamente successivi agli allentamenti delle restrizioni. Evidentemente l’uomo occidentale moderno non si discosta molto da quello antico, descritto ancora una volta da Lucrezio nella conclusione del terzo libro del De rerum natura: «La gente si annoia a stare in casa da sola, ma quando esce a fare un giro presto rientra, perché si annoia anche fuori. Appena rientrata ricomincia a sbadigliare, si dedica a qualche svago e poi esce di nuovo. In realtà noi cerchiamo di fuggire da noi stessi ammazzando il tempo, ma la cosa è impossibile, e la convivenza con noi stessi è obbligata».

Come e peggio di allora, sembra che l’unica cosa che oggi sappiamo fare nel nostro tempo libero sia andare a far compere, tirare calci a un pallone o guardare chi lo fa, cazzeggiare nei bar della movida e ballare in discoteca. Per lasciare ancora la parola a Lucrezio: «Noi ci muoviamo in tondo, a ricercare sempre gli stessi piaceri della vita, perché vivendo non se ne incontrano di nuovi. Ottenere ciò che non abbiamo sembra essere la cosa più importante, ma non appena lo otteniamo passiamo subito a desiderare qualcos’altro: il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile».

Concentrarci sulla nostra vita interiore, ad esempio leggendo, pensando e meditando, è qualcosa che noi moderni aborriamo e da cui rifuggiamo, tutti intenti come siamo a ricercare una superficiale realizzazione materiale. Ormai non abbiamo neppure un istante da dedicare a noi stessi, essendo tutti impegnati a tempo pieno nel triplo gioco del lavoratore, consumatore e vacanziere forzato: non abbiamo dunque saputo sfruttare l’occasione unica di una temporanea uscita dal gioco offertaci dalla pandemia, e l’abbiamo invece vissuta come un disagio e un’imposizione, lamentandocene, e attendendo con ansia la fine del confinamento.

Eccesso di mobilità globale

Il più grande insegnamento che non siamo stati in grado di imparare in questo anno, è che non dovremmo affatto tornare a giocare lo stesso gioco di prima. Anzitutto, perché la diffusione della pandemia è stata facilitata dal rimescolamento della popolazione prodotto da un eccesso di mobilità globale e locale, oltre che dall’affollamento e dall’inquinamento esistenti nei paesi e nelle metropoli a grande densità e alto sviluppo. Dunque, dovremmo smettere di accumulare miglia su miglia in spostamenti e viaggi, e assembrare corpo su corpo in città e locali: la mobilità, l’urbanizzazione e la socializzazione vanno drasticamente ridimensionate e radicalmente invertite, se non vogliamo che i focolai locali delle prossime epidemie tornino a divampare in incendi globali.

Fin dagli inizi del primo lockdown si sono levate le proteste degli industriali, dei commercianti e dei lavoratori autonomi, per la chiusura o il rallentamento delle loro attività. Per la prima volta in occidente il libero mercato e lo stato democratico si sono apertamente fronteggiati, in un dibattito agghiacciante: si doveva privilegiare il salvataggio degli incassi, o quello delle vite umane? Gli idealisti avevano un bel declamare, come John Donne in Per chi suona la campana: «Ogni morte mi diminuisce. Dunque, non chiederti per chi suona la campana, perché suona per te». I realisti li riportavano subito alla ragione calcolando il costo dei rintocchi in euro o dollari, e discutendo di quale cifra dovessimo essere disposti a pagare per evitarli.

Le posizioni estreme di questo scontro ideologico si sono fronteggiate negli Stati Uniti e in Cina. Il presidente Trump ha dichiarato che non si poteva fermare l’economia per salvare delle vite, e il risultato è stata una perdita di circa 300.000 americani, sei volte maggiore che nella guerra in Vietnam: evidentemente, in una guerra a difesa del mercato gli Stati Uniti sono disposti a immolare molti più cittadini che in una all’attacco del comunismo. La Cina ha invece avuto meno di 5.000 vittime, a fronte di una popolazione quattro volte superiore a quella americana: dunque, una mortalità mille volte più bassa! Pur adottando misure più drastiche che negli Stati Uniti, l’Italia ha pagato un prezzo analogo a causa di una peggiore sanità e di una maggior densità di popolazione: le nostre vittime sono infatti più di 60.000, pari a una mortalità di circa l’uno per mille, purtroppo analoga a quella americana. Gli effetti dei lockdown sulla nostra economia hanno portato a una perdita stimata di circa il dieci per cento del Pil, che in un’economia capitalistica è considerata una disgrazia. Ma ecco un’altra delle lezioni che non siamo stati in grado di imparare dalla crisi del 2020: il Pil, come indice del benessere di un paese, è rudimentale e miope, e non tiene conto di altri fattori altrettanto fondamentali, come appunto la mortalità in un’epidemia. Bisognerebbe dunque sostituirlo con altri indici: ad esempio, quello proposto dai due premi Nobel per l’economia Amartya Sen e Joseph Stiglitz in La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il Pil non basta più per valutare benessere e progresso sociale (Rizzoli, 2010).

In ogni caso, il Pil misura soltanto la quantità del prodotto interno lordo, senza preoccuparsi affatto della sua qualità. Ma poiché una buona parte di ciò che si produce è non soltanto inutile, ma dannosa, dovremmo essere felici di ostacolarne finalmente la produzione, invece di continuare a favorirla. Ad esempio, il fumo miete ogni anno un numero di vittime superiori a quelle causate nel 2020 dal Covid, e troppe automobili intasano il traffico e inquinano l’ambiente: eppure, le tabaccherie sono rimaste aperte durante il lockdown, anche perché il tabacco è monopolio di stato, e la Fca ha subito ricevuto, fin da maggio, ben sei miliardi di prestiti garantiti pubblicamente. Per non parlare del traffico legale di armi, per il quale il governo ha dato nell’ultimo quinquennio (2020 compreso) licenze per 44 miliardi di euro.

Più in generale, i Decreti liquidità italiani e il Recovery fund europeo tendono a salvaguardare indiscriminatamente la produzione e incentivare gli acquisti, a monte e a valle delle filiere industriali e commerciali, senza preoccuparsi minimamente di separare il grano dal loglio. E testimoniano che l’economia di mercato, incapace di sopportare periodi di stress che durino più di qualche settimana, dev’essere mantenuta artificialmente in vita con massicci interventi statali o comunitari, che quest’anno hanno già superato i 100 miliardi di euro. Il risultato è la conferma dell’esistenza in Italia di un deleterio capitalismo assistenzialista, che unisce il peggio dei due sistemi, all’insegna del motto “guadagni privati, ma perdite pubbliche”.

La democrazia del consenso

In un’altra direzione, a intralciare l’imposizione delle misure suggerite dai tecnici per salvaguardare le vite dei cittadini c’è anche la sedicente democrazia degli stati occidentali, che spinge i governanti a fare il minimo necessario, invece del massimo possibile, per non alienare il gradimento degli elettori, che prima o poi eserciteranno il loro diritto di voto. Il principio di Realpolitik seguito dai governi è stato chiaramente riassunto il 30 ottobre da Angela Merkel: «Avremmo dovuto agire prima, ma per i cittadini non sarebbe stato facile accettarlo. Hanno bisogno di vedere i letti degli ospedali pieni».

Detto altrimenti, in democrazia contano non soltanto i pareri informati e ragionati, ma anche e soprattutto le opinioni degli ignoranti e degli stupidi. Dunque, solo un politico che sa già che non si ripresenterà alle elezioni, come appunto la Merkel, può permettersi di dire ciò che pensa e fare ciò che deve: gli altri, se sono vili abbozzano, e se sono coraggiosi rischiano grosso. Persino Winston Churchill, dopo aver sconfitto i nazisti e meritato il titolo di salvatore dell’Europa, due soli mesi dopo il V-E Day fu solennemente trombato alle elezioni del 1945 dagli elettori inglesi, che lasciati a sé stessi avrebbero forse preferito perdere la guerra, all’essere stati costretti a dare “sangue, fatica, lacrime e sudore”.

Naturalmente, paragonare i confinamenti nei rifugi sotto le bombe ai lockdown in poltrona di fronte alla televisione è un insulto verso chi ha dovuto subire i primi, ma alle popolazioni vissute in panciolle nel Dopoguerra i secondi devono essere apparsi altrettanto traumatici. E imporli in Italia è stato comunque difficile, per un governo che è doppiamente inadeguato: da un lato, perché espressione di un’alleanza di partiti disuniti fra loro e minoritari nel paese, e dall’altro lato, perché in massima parte composto di politici privi di cultura scientifica e competenza tecnica. La situazione avrebbe invece richiesto un serio governo di unità nazionale, appoggiato da tutti i partiti e gestito da ministri indipendenti, in grado di affrontare l’emergenza unicamente in base agli interessi dei cittadini. Un governo simile l’abbiamo avuto in Italia in tre diversi periodi: nel 1916–1919 durante la Prima guerra mondiale, nel 1944–1947 a cavallo tra la fine della Seconda guerra mondiale e la Costituente, e nel 1976–1978 nel periodo del terrorismo. Molti hanno paragonato l’epidemia di quest’anno a un’emergenza simile a una guerra, e sicuramente i suoi più di 60.000 morti fanno impallidire le 370 (!) vittime complessive degli interi “anni di piombo” 1969–1988: a maggior ragione, la politica avrebbe dovuto mostrare quest’anno un’analoga coesione nazionale, o almeno delle “larghe intese”.

Abbiamo invece assistito alla gestione unilaterale della crisi da parte di un governicchio, nato nel 2019 con l’unico scopo di evitare le elezioni che avrebbero terremotato il parlamento, e che ora sopravvive boccheggiando, con l’unico scopo di spartire fra il minor numero possibile di temporanei alleati, e con il minimo numero possibile di controlli, il succulento bottino dei fondi europei. La pandemia ha dunque messo a nudo una crisi globale dell’occidente, in generale, e del nostro paese, in particolare, smascherando l’inadeguatezza dell’intero sistema politico-economico e delle sue classi dirigenziali, oltre che lo squallore etico e sociale di un modo di vita che privilegia cinicamente i consumi rispetto alle vite umane.

Abbiamo avuto e avremmo l’occasione di ripensarci alle radici, analizzando cosa cambiare marginalmente e cosa abbattere radicalmente, ma sembra che preferiamo chiudere gli occhi di fronte alle scomode domande che la pandemia ha sollevato. Vogliamo veramente continuare ad affidarci agli anacronismi religiosi, culturali, sociali, economici e politici di un passato ancora presente, e di un presente ormai passato, o sapremo finalmente trovare il coraggio di prepararci ad affrontare il futuro guardando al mondo con occhi nuovi? In particolare, riusciremo in economia a mettere in primo piano i veri bisogni dei consumatori, primi fra tutti la salute e la vita, e in secondo piano gli interessi dei produttori e dei venditori, unicamente concentrati sui costi e i guadagni? E riusciremo in politica a far prevalere i bisogni generali della comunità sugli interessi particolari di singoli partiti o, addirittura, di singoli individui? The answer, my friend, is blowin’ in the wind. The answer is blowin’ in the wind.

 

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