Immagine spaziale di una totalità comunicante. Se lo si guarda da tale punto di vista, l’eterogeneità dei materiali, dei soggetti e delle figure del presepe trovano improvvisamente una loro unità. La definizione dello spazio, infatti, è l’atto inaugurale del presepe. In questo senso il ruolo di chi fa il presepe ha qualcosa di quello dell’ecista, del fondatore di città, che era prima di tutto la creazione di un luogo culturalizzato, di uno spazio socialmente significante perché sottratto alla natura e al caos.

Disegnare e comporre il presepe è riscrivere, anno dopo anno, il mito di fondazione di una comunità utopica nel senso letterale del termine, poiché il luogo del presepe non è un’estensione materiale, bensì un’architettura dell’istante messianico che riunisce in sé ogni tempo. Una miniatura panica.

È tale forma profonda a connettere l’«infinita congerie» che altrimenti resterebbe una semplice giustapposizione di parti. L’unità del presepe non sta dunque nei singoli elementi, bensì nelle loro relazioni nascoste.

Il dispositivo rituale, nel suo intreccio di materiale, simbolico e immaginario, si costruisce come una lingua al tempo stesso semplice e complessa, la cui ferrea sintassi la pone in condizione di produrre termini e di riarticolare significati sempre nuovi. Come reificazione di una struttura mitica che, secondo Claude Lévi-Strauss, non è costituita da relazioni visibili, bensì dai raccordi e dai collegamenti invisibili che le danno vita.

Gruppi comunicanti

Non a caso nel presepe numerosissimi sono gli elementi architettonici fatti per mettere in comunicazione e al tempo stesso per significare la comunicazione: ponti, gradinate, scale, sentieri a serpentina, balconi e terrazze sempre affollate che mettono in connessione gruppi di figure. Corpi, posizioni, costellazioni di pastori sono messi l’uno di fronte all’altro, in una posizione di interazione che trasforma in totalità le singole unità comunicative e riconduce le singole comunità a una più grande, di gruppi comunicanti.

Anche con l’aiuto di piani scenici come strade, loggiati, atrii, portici, e cornici architettoniche come colonne, archi, soglie. Ne risulta un’impressione di perenne trasformazione, e ciò rappresenta «un effetto grandioso e quasi reale sortito da queste figure che sono immobili e fisse nella loro collocazione» (Kalverkämper 2003, 55).

Per più versi, l’architettura presepiale fa pensare a quell’analogia tra città e linguaggio che Ludwig Wittgenstein accosta proprio in quanto entrambi sono sostanzialmente trama di differenze, compresenza di forme e significati. E che trova un’incarnazione nella descrizione che il filosofo Walter Benjamin e l’attrice e regista Asja Lacis offrono della intensissima urbanitas napoletana: «L’architettura è porosa come questa roccia. Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre in cortili, arcate, scalinate. A tutto si lascia lo spazio per divenire teatro di nuove costellazioni mai viste prima. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone: “così e non altrimenti”» (Benjamin e Lacis 1979, 27).

Dunque, la cultura e la tipologia urbanistica italiane influenzano anche lo spazio presepiale facendone una «sospensione» plastica del ritmo comunitario. Una porosità densamente generativa, quindi, e fisiologicamente gravida di forme, per cui le è indispensabile segmentare e rideterminare quegli spazi che è costretta a riempire, per una sorta di costitutivo horror vacui.

Immagine della città

Non a caso il sovraffollamento e la congestione sono storicamente convenzioni descrittive della città partenopea e della sua sovraesposizione espressiva, che la sua stessa fitta combinatoria umana e sociale trasforma in un teatro totale. «Tutti si dividono in una quantità di zone di spettacolo animate simultaneamente. Balconi ingressi finestre scale tetti sono allo stesso tempo palcoscenico e loggione» (ibidem, 39).

È in questo senso che il presepe è immagine della città, non solo perché in esso sono riprodotti usi e costumi. Il che è ovvio. Ma se tutto si risolvesse qui, il presepe sarebbe ridotto a una sorta di ingenuo repertorio etnografico.

La verità è che la macchina rituale riproduce in miniatura le ragioni sociali di quella compresenza di elementi insanabili e tuttavia inseparabili, di cui l’estetizzazione del presepe, il suo smembramento in mera lista di pezzi singoli, stempera la drammaticità nel pittoresco. In questo senso un viaggiatore come Gorani, che vedeva nel presepe un monumento alla credulità, riteneva tuttavia che l’apparente, ossimorica contraddittorietà della scena fosse una spia del carattere della nazione napoletana.

Il ponte

Tra le architetture di raccordo ha un posto di primo piano il ponte, tradizionale simbolo di collegamento, di articolazione spaziale. Non a caso nell’universo mitico-rituale l’arco che congiunge le sponde opposte fa di quel suo essere tra l’una e l’altra uno specifico luogo intermedio.

L’autore del presepe, nel momento in cui getta un ponte per scavalcare un fiume di carta stagnola, più che semplice geniere, diventa «pontefice» nel senso profondo di colui che crea legame tra più mondi: tra l’uomo e il sacro, tra i vivi e i morti (Seppilli 1977; Heidegger 1991).

Spesso la mitologia e il folklore immaginano il viaggio dell’anima verso l’aldilà come attraversamento di un ponte, talvolta sottile quanto un capello. In molte località del Meridione d’Italia, Campania compresa, il giorno dell’Epifania si mettevano accanto al ponte del presepe dodici figure di incappucciati in processione dietro al corteo dei Magi.

I dodici avevano il pollice della mano sinistra che ardeva come un cero per simboleggiare i dodici mesi dell’anno ormai defunti che si apprestavano a lasciare questo mondo. Usi del genere testimoniano la presenza latente di un simbolismo infero nel presepe, sottolineata con diverse intonazioni da autori come Roberto De Simone e Annibale Ruccello.

Certamente nell’effetto notte che caratterizza alcune fasi della ritualizzazione del Natale, come le sere di Vigilia, il simbolismo religioso e solstiziale dell’opposizione tra luce e tenebre si sovrappone metaforicamente a quella tra vivi e morti. E nei cenoni resta, profondamente gettato, un fondo, spesso immemore, che ha sequenze da banchetto funebre. Lévi-Strauss considera espressamente i veglioni come dei pasti offerti ai morti (Lévi-Strauss 1995, 73). E Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, attribuisce alle vigilie di Natale e di Capodanno una «indubitabile natura di tavolo commemorativo» (Propp 1978, 48).

Presente e passato

In molti sistemi di credenze popolari, il 2 novembre le anime dei defunti tornano ogni anno a visitare i luoghi in cui avevano vissuto e vi si fermano fino al 6 gennaio. Il giorno dopo la loro partenza, dunque, il presepe viene smontato.

In queste credenze, oltre che a un residuo di rituali precristiani – ormai storicamente inerte e privo di funzione – è possibile scorgere un tratto tipico dell’architettura della festa come totalità, come compresenza di presente e passato, come riunione di chi c’è e ricordo di chi non c’è. È anche il caso di rilevare che la presenza di simbolismi funebri è indispensabile alla dialettica simbolica della Natività.

L’incarnazione rappresenta infatti la vittoria della vita eterna e la sconfitta della morte. E tale contrapposizione prende sulla scena del presepe le forme tradizionali che essa ha nelle culture popolari dell’Europa cristiana. Agli antichi riporti pagani viene dunque conferito un significato nuovo, e in tale riscrittura sta tutta la storicità del presepe.

Un’analoga funzione comunicativa hanno elementi come il pozzo, tradizionale collegamento simbolico tra alto e basso. O come le fontane, tipico luogo d’incontro, o meglio d’incrocio. Spesso anche nel presepe le fontane sono collocate alla confluenza di percorsi, in quei crocicchi che indicavano i cammini e funzionavano al tempo stesso come punti dove ritrovarsi. E infine la grotta, luogo ierofanico per antonomasia, come si è detto in precedenza, scena in cui le religioni mediterranee fanno nascere il dio solare.

La grotta

È nella grotta che il presepe colloca la mangiatoia dalla quale esso stesso prende il nome. Soprattutto il presepe popolare, quello che tra Ottocento e Novecento raccoglie la fiaccola di una tradizione che senza tale popolarizzazione, senza entrare nei meccanismi riproduttivi della cultura di massa, sarebbe probabilmente tramontata.

È il presepe popolare che, riprendendo la lezione dei Vangeli apocrifi, colloca la nascita di Gesù in una grotta, contrapponendosi alla tradizione del presepe francescano e di quello gesuitico che facevano nascere il Messia in una capanna o tra i ruderi di un tempio.

Sia il Protovangelo di Giacomo, sia lo pseudo-Matteo parlano di una grotta, e quest’ultimo addirittura di uno  speco sotterraneo in cui non era mai penetrata la luce, sempre abitato da una notte oscurissima. In questo senso, la grotta non è uno spazio della natura ma un segno, una dimensione ctonia dell’essere, un geroglifico altamente significante. Luogo sotterraneo e simbolo della comunicazione tra alto e basso, solare e notturno, la grotta conserva qualcosa della sacralità abissale del mundus, passaggio soprannaturale di quegli inferi che sono l’humus dove il divino nasce e rinasce.

Non a caso, scriveva il regista Annibale Ruccello, il senso profondo del presepe si conserva trasformandosi soprattutto a opera della cultura popolare, più sincretica e meno conservatrice sia rispetto all’ortodossia religiosa, sia rispetto a quella storico-artistica (Ruccello 1978, 56). Secondo questo autore, quello gesuitico e quello popolare costituirebbero due modelli presepiali di tendenza opposta.

Il primo è caratterizzato da una rappresentazione verso l’alto, con la Natività collocata su un colle. Mentre il presepe popolare tradizionale è caratterizzato da una serie di discese in sughero che conducono a tre grotte, di cui la centrale contiene la Natività, quella di sinistra rispetto a chi guarda, l’osteria, mentre in quella di destra è collocata la figura di Ciccibacc’ ’ncopp’a votte, ovvero Ciccibacco sulla botte, una reincarnazione della figura di Bacco, dio del vino che nella tradizione partenopea viene detto anche Zi’ Bacco, cioè Zio Bacco. Dove il ricorso all’appellativo di parentela ha la funzione di rendere familiare la figura, per meglio adattarla all’immaginario locale.

Se non ci fosse la grotta, scrive Giorgio Manganelli, non ci sarebbe nessuno. La vera protagonista è la grotta. È nella grotta intesa come passaggio tra la dimensione celeste e quella ctonia che sta veramente il presepe, ovvero la cellula generativa dello spazio sacro, la santa mangiatoia o meglio il recinto. Questo vuol dire letteralmente, come si è detto, la parola «presepe», ciò che è separato da una siepe.

«Et reclinavit eum in praesepio, quia non erat eis locus in diversorio» (Lo depose in una mangiatoia poiché non c’era posto per loro nell’albergo). Così recita Luca (2, 5-7) indicando nell’umiltà apparente della mangiatoia la potenza soteriologica e «terribile», nel senso letterale del termine, di un «intreccio» alluso già nell’etimo della parola che in molte lingue indica il presepe: il tedesco Krippe, l’inglese crib e il francese crèche.

Canestri intrecciati che fanno da riparo, che tracciano un confine di salvezza custodito da una siepe che resta pur sempre una soglia dell’ombra, un limite che si apre all’abisso e che per la stessa ragione lo scongiura, come ogni riparo che da tanta parte il guardo esclude. L’infinito buio oltre la siepe: è il fondo tartareo dell’essere che viene dunque evocato ed esorcizzato dalla nascita del significato.

In questo senso il presepe napoletano, qualunque sia l’eterogeneità del mondo che vi è racchiuso per rinascere, conserva un suo «intreccio» globale. Anzi, maggiore è l’accozzaglia di parti disparate, più nitidamente appare il profilo della totalità, dell’armonia dissonante che regge la partitura.


Questo brano è tratto da Il presepe di Marino Niola ed Elisabetta Moro – Il Mulino, pagg. 290 euro 16

Marino Niola insegna Antropologia dei Simboli e Antropologia della contemporaneità all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. È editorialista di Repubblica». Sul Venerdì di Repubblica cura la rubrica Miti d’oggi. Con il Mulino ha pubblicato Si fa presto a dire cotto (2009), Homo dieteticus (2015), Non tutto fa brodo (2020), I santi patroni (2022).

Elisabetta Moro è professore ordinario di Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. È editorialista del Corriere della Sera, Il Mattino. Con il Mulino ha pubblicato: Sirene. La seduzione dall’antichità ad oggi (2019) e La dieta mediterranea. Mito e storia di uno stile di vita (2021).

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