Converrebbe prendere ogni saggio, si può persino arrivare a prendere ogni pagina di ogni saggio, e domandare, addirittura a voce alta se oltre a noi non c’è nessun altro nella camera in cui stiamo leggendo: dalla superficie mi porterai verso l’abisso, dal profondo mi porterai all’evanescente, al disperso, all’effimero? Mi farai perlomeno divertire, o sei solo un alone nel silenzio? Brian Dillon, con il suo nuovo libro Scrivere la realtà (in libreria per il Saggiatore, con la traduzione di Andrea Sirotti), si dimostra ancora una volta capace di combinare in un modo meravigliosamente informale eppure serissimo ricordi personali e rimasticature di sapienze altrui, traccheggiamenti e illuminazioni improvvise. Assicurandoci – lui sì – la nostra buona dose di superficie e di abisso, di profondo e di evanescente.

In questo suo saggio tergiversa con maestria, Dillon, perché sa che il saggista non è mai chiamato a risolvere un enigma, né si guadagna da vivere come un investigatore né si commissiona da sé qualche caso scelto a caso pur di tenersi lontano dalla famiglia, ma è invitato dai suoi lettori a vivere nella promessa imminente della risoluzione dell’enigma. «Il saggio è un giudizio», scrisse del resto György Lukács, «ma l’essenziale, la cosa che ne determina il valore non è il verdetto, ma il procedere del giudizio». E qui l’enigma, come recita il sottotitolo del libro, è particolarmente succoso: L’arte del saggio perfetto.

Esiste quest’arte? Dove si trova? Serve qualche licenza per esercitarla o è alla portata di tutti? Dillon ha lo sguardo strabico, è soggetto a cali d’attenzione e subito dopo a repentini interessamenti. È rigoroso nel sciorinare la materia e da ciò ne derivano tutti gli effetti collaterali facilmente immaginabili: innanzitutto è pieno di dubbi e di crucci, che ce lo avesse voluto far sapere oppure no.

Lo scultore Alberto Giacometti disse: «Più lavoro, più vedo le cose diversamente, ogni cosa aumenta di grandezza ogni giorno, diventa sempre più sconosciuta, sempre più bella. Più mi avvicino, più è grande, più è remota». In questo suo ultimo libro Dillon si avvicina alla bellezza remota dei migliori che lo hanno preceduto in questo mestiere: Michel de Montaigne, Susan Sontag, Adorno, Walter Benjamin, Julia Kristeva, Roland Barthes, tanto per indicare qualcuno dei suoi numi tutelari.

La caratteristica che si scorge, talvolta almeno, nei saggi migliori, in quelli evocati da Dillon? Una venerabile vulnerabilità del saggista. Una sconsolata velleitarietà. Certo ciò non succede ai saggisti che si mostrano sentenziosi e assertivi come un qualsiasi referto dell’esame delle urine, ma a tutti gli altri sì. Traspare in tutti quelli che scrivono di qualunque argomento in quanto membri di un’umanità disinteressata e il cui destino neanche in quell’occasione dipende da quello sfoggio d’intelligenza e arguzia che loro hanno appena messo in mostra.

Graham Greene notava che il romanziere, visto che la stesura del romanzo richiede di solito diversi anni di impegno, “non è più, al termine del libro, lo stesso uomo che era all’inizio… come se si trattasse di qualcosa [il romanzo] che ha cominciato nella fanciullezza e che sta terminando ora nella vecchiaia”.

Il saggista, al contrario, inizia e conclude il suo lavoro quando ha la stessa età, verosimilmente nella stessa stagione dell’anno in cui aveva scritto la prima parola scrive anche l’ultima: se era giovane quando l’aveva iniziato è giovane quando lo finisce; se era vecchio quando l’aveva iniziato è vecchio quando lo finisce.

Eppure, anche se nel redigere quel suo saggio avesse impiegato due giorni soltanto o una settimana, il prodigio tra i tanti di cui dovrà essere capace il saggista sarà quello di dar l’impressione di essere nel frattempo ringiovanito e invecchiato: di aver perso consapevolezza, riacquisito un’ingenuità ormai dimenticata, di aver visto il mondo intero e di non aver ancora mai preso il treno, di essere in procinto di morire e di dover aspettare ancora qualche ora prima di nascere di nuovo.

Astenersi dottori

È un mondo disinvolto, non del tutto adatto agli specialisti e ai dottori, quello del saggio. Un mondo di fraintendimenti, di esche, di uscite a vuoto e di stupende intuizioni. E queste intuizioni derivano dal fatto che maggiore è lo spaesamento di chi scrive e più la sua intelligenza si acuisce. Ancora, il bel mondo che Dillon ci presenta nel suo saggio è un mondo di timbriche insolite, tra il distratto e il secchione, il sentenzioso e il transitorio, un mondo in equilibrio drammaticamente precario sull’orlo dell’impossibile. Un mondo in cui spesso traspare la mortificazione che consegue il non averci poi capito granché, di qualunque argomento si trattasse.

Un mondo di pareri di individui intelligenti e quindi un mondo nientemeno che di modestia. Per spiegare questa faccenda della modestia, propongo di prendere la celebre foto scattata dal fotografo inglese Martin Parr nel 1990 a Pisa, in piazza dei Miracoli. Per chi non l’avesse ancora vista o non se la ricordasse, basti dire che in questa foto si vedono diverse persone, certamente se ne riconoscono tre in primo piano, che ognuna per conto proprio, ognuna come se nessun’altra esistesse all’infuori di sé, chi inginocchiata, chi sorridendo e chi mimando lo sforzo impossibile, ognuna della tre persone ritratte forse a loro insaputa da questa foto sta facendo nello stesso istante il solito gesto di reggere con le proprie mani l’intero peso della Torre inclinata.

Il saggista, come anche Brian Dillon, si prodiga per argomentare, per osservare il più possibilmente da vicino il suo oggetto di studio, per sostenere uno sguardo singolare su quanto sta analizzando, senza però credere che da quelle sue pagine dipenda seriamente la verità. Esattamente come nessuno in piazza dei Miracoli a Pisa riterrebbe che una volta che lui o lei avrà abbassato le braccia e ripreso una postura normale, la Torre cadrà veramente sulle loro teste.

Elizabeth Hardwick sosteneva che una delle ragioni per cui leggiamo un saggio sia quella di osservare una mente singolarmente intelligente al lavoro, «spesso senza essere d’accordo, ma per puro piacere». Vogliamo che il saggista si contraddica, che si ingarbugli senza perdere nitidezza, che dopo una caduta libera di decine di pagine si ritrovi, stralunato e sorpreso innanzitutto lui stesso, ben più lontano di dove avesse previsto spingersi quando quella mattina si era seduto alla scrivania al cospetto del foglio bianco.

Postfazione perenne

Charles Lamb scrisse: «Proprio non capisco come, avendo cominciato a discettare in modo semiserio su un argomento, io sia potuto cadere in un resoconto così doloroso». È ciò che in parte capita anche a Brian Dillon che iniziando a cianciare sui saggi altrui, sulle caratteristiche che lui cerca nei lavori dei colleghi o di chi l’ha preceduto in quest’arte che armonizza insolenza e tolleranza, si scopre a parlare della sua depressione.

Dei genitori che morirono, l’uno cinque anni dopo l’altro, lasciandolo orfano appena prima di conseguire la maggiore età. Si scopre a raccontare la fine della relazione sentimentale più importante della sua vita. Il saggio è imprevedibile al saggista stesso, ma non come lo è il romanzo, per cui ci può essere l’autore che giura che d’un tratto i suoi personaggi hanno deciso come comportarsi e che fine fare, indipendentemente dalle sue volontà; no, proprio no, il saggio prende una strada diversa da quella supposta inizialmente perché è lui che in quelle poche ore, in quei pochi giorni o in quella manciata di settimane guardando a destra si è ritrovato ad andare a sinistra.

È Dillon che studiando a nostro beneficio le opere di Perec o Sebald, si è ritrovato d’un tratto davanti alla casa in cui si trasferì con tutti i suoi libri dopo aver lasciato la compagna di quindici anni d vita. Si può andare da cima a fondo, dalla superficie all’abisso, ma non è previsto che lo si faccia in linea retta: anche questo sta nel savoir-faire del saggista.

A me, che succede di considerare i saggi come un’interminabile postfazione al mondo e alla vita, una postfazione in continua, perenne fase di scrittura, una postfazione alle infinite cose umane, mi succede anche di pensare a un verso di Gertrud Kolmar, tutte le volte che ne ho davanti uno: «Tu che leggi questo, sta’ attento;», scriveva la poetessa berlinese, «poiché, vedi, è un essere umano quello che stai sfogliando». E sono stato attento, leggendo Scrivere la realtà, perché era proprio Brian Dillon che stavo sfogliando.

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