Nel 2016 il mondo dell’arte ha preso atto che tra i maggiori pittori contemporanei doveva annoverare Kerry James Marshall. Non che prima fosse uno sconosciuto, gli erano già state dedicate mostre e aveva ricevuto prestigiosi riconoscimenti, ma il successo della retrospettiva dedicatagli dal Museum of Contemporary Art di Chicago e riproposta dal Metropolitan di New York e dal MoCA di Los Angeles ha sancito in maniera inequivocabile l’importanza di questo artista nero nato a Birmingham, Alabama, nel 1955.

Nel 1963, all’età di otto anni Marshall si trasferì a Los Angeles, dove la famiglia trovò casa nel quartiere Watts, che negli anni successivi sarà teatro di rivolte, di pesanti interventi della polizia e di scontri tra gang di strada, spesso protagoniste di crimini violenti. Dai suoi racconti emerge come già da ragazzino Marshall si sia ritrovato a dover prendere coscienza del lato oscuro dell’esistenza. Dal 1987 vive a Chicago, dove ha insegnato pittura alla School of Art and Design dell’Università dell’Illinois.

Degrado e vitalità

Il suo essere parte di una storia fatta di emarginazione e ingiustizie ha segnato il suo percorso di uomo e di artista, che lo ha portato a raffigurare solo scenari abitati da afroamericani. I dipinti delle serie Garden Project, realizzati tra il 1994 e il 1995, sembrano a prima vista presentare momenti di vita spensierata della comunità nera che abita in quartieri costruiti secondo un piano di edilizia pubblica per famiglie a basso reddito. Ideati negli anni Quaranta e presentati come “garden”, questi quartieri propagandavano una buona qualità della vita che nel tempo non ha trovato riscontro nella realtà tanto da essere ancora oggi oggetto di progetti di riqualificazione. Marshall evidenzia come questi quartieri siano espressione di contraddizioni che l’artista ben conosce, avendo abitato a Nickerson Gardens per due anni. Se per un verso infatti questi complessi abitativi sono diventati luoghi di emarginazione e degrado, per l’altro sono stati anche ricchi di fermento e vitalità. I suoi quadri testimoniano la complessa realtà di questi luoghi creando un contrasto tra gli ambienti ricchi di verde, con case a due piani con tanto spazio intorno e l’espressione seria dei volti di chi li abita.

In Bang (1994), su un prato con barbecue, tra alberi, steccati e ombrelloni, una ragazza nera solleva la bandiera a stelle e strisce mentre due ragazzini, anche loro afroamericani, la omaggiano portando la mano destra sul petto. In alto due colombe bianche reggono con il becco un cartiglio su cui si legge «La resistenza contro la tirannia è obbedienza a Dio». Quattro nuvolette, in basso, su cui è scritto «4 luglio bang» ci dicono che la scena ha luogo nel giorno dell’Indipendenza. Il Bang aggiunto a questa importante data suona come uno sparo sugli ideali fondativi di unità espressi dal motto «Siamo una sola cosa» contenuto in un altro cartiglio in basso. La testa della ragazzina è incoronata da sottili raggi di luce. La familiarità di Marshall con la storia dell’arte emerge dal modo in cui si appropria e traduce adattandoli alle proprie esigenze formali e narrative diversi elementi iconografici tradizionali come per l’appunto l’aureola che egli pone sulla testa di giovani martiri innocenti della discriminazione e della violenza, oppure il cartiglio, utilizzato nei dipinti medievali per rendere esplicito il messaggio di figure simboliche. La scelta del grande formato deriva invece dalla pittura storica e gli consente di dare un respiro epico ai suoi quadri. Il suo interesse si rivolge anche alla pittura pastorale, che ben si presta a dare immagine a scene di vita collettiva.

La pittura pastorale

Il modello della pittura pastorale francese, e Antoine Watteau in particolare, è evidente in Past Times, 1997 (nella foto), opera venduta nel 2018 per 21,1 milioni di dollari. In questo quadro, seguendo una strategia che gli è congeniale, Marshall sostituisce gli eleganti aristocratici europei immersi in una natura idealizzata con neri benestanti che trascorrono una spensierata giornata di vacanza in riva a un lago.

Per quanti riferimenti alla tradizione della pittura europea Marshall possa mettere in gioco, nei suoi dipinti i personaggi raffigurati sono sempre afroamericani, un modo per rimarcare l’assenza di soggetti neri nella storia dell’arte occidentale. Le poche volte che i neri sono entrati in passato nella scena del quadro hanno avuto la funzione di introdurre un carattere esotico. Questo è avvenuto anche nel caso in cui il pittore era animato dalle migliori intenzioni. Fa eccezione Portrait du C. Belley, ex-repréesentant des colonies realizzato nel 1797, negli anni della Rivoluzione, da Anne Lousi Girodet. Nel ritratto, l’ex schiavo Belley, divenuto deputato di Santo Domingo alla Convenzione, è in posa con il braccio appoggiato sul piedistallo che regge il busto di Guillaume-Thomas François Raynal (1713-1796), ex gesuita noto per le sue posizioni abolizioniste. Girodet raffigura Belley in abiti e atteggiamenti da legislatore francese. Un esempio che avrà poco seguito. Contrariamente a Girodet, Marshall evidenzia la differenza culturale attraverso il modo in cui sono vestiti o pettinati o si muovono i suoi soggetti, che rivendicano la loro identità.

Uno sguardo diverso

Marshall afferma in maniera sottile e trasversale che non c’è un modo univoco di essere nel mondo e di guardare il mondo, trasmettendo una commovente idea di bellezza: la bellezza della differenza. Pur dando spazio ai sentimenti di chi crede che un mondo migliore sia possibile, le espressioni serie dei suoi soggetti e alcuni dettagli della scena rivelano che le esistenze rappresentate sono sempre accompagnate da elementi di disturbo. In School of Beauty, School of Culture (2012), per esempio, Marshall raffigura delle donne nere in un salone di bellezza carico di specchi con cornici dorate a forma di cuore. Alle pareti si possono riconoscere la copertina dell’album The Miseducation, di Lauryn Hill, il manifesto della mostra alla Tate di Chris Ofili e ancora fotografie e poster, tutti riferiti alla cultura dei neri. In primo piano e in posizione centrale una donna con un’elaborata acconciatura dreadlock si atteggia a pin up. Lo specchio alle sue spalle riflette il fotografo che, fuori dal quadro, sta scattando. Tutte le donne presenti nel dipinto affermano orgogliosamente le loro origini attraverso le particolari acconciature e il modo di vestire.

In quest’opera il riferimento di Marshall alla storia dell’arte europea spazia da Jean Van Eyck a Quentin Metsys, da Diego Velázquez a Hans Holbein. Il fotografo fuori dal quadro che si vede riflesso nello specchio si appropria infatti dell’espediente usato per la prima volta da van Eyck nel Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434), nel quale lo specchio convesso riflette la coppia vista di spalle, la stanza in cui posa e due persone che si trovano di fronte a loro sulla soglia della porta. Più esplicito il riferimento che Marshall fa qui agli Ambasciatori di Holbein (1533), di cui riprende l’idea dell’anamorfosi in primo piano. In Holbein la figura deformata è quella di un teschio, il classico richiamo al tema della Vanitas, in Marshall invece l’immagine che può essere catturata solo da una determinata angolazione è la testa della Bella addormentata nel bosco in versione cartone animato Disney. Con la sua carnagione bianca, gli occhi celesti e i capelli biondi questo personaggio per oltre mezzo secolo ha offerto ai bambini un modello di bellezza. Nel dipinto di Marshall sono infatti solo i bambini ad accorgersi della sua pericolosa presenza.

Certezza delle forme

Sul piano formale la non comune qualità compositiva e pittorica di Marshall si distingue per la stabilità che egli dà alla costruzione geometrica della scena, quasi sempre caratterizzata da suddivisioni in campi di colore ben definiti. In questo Marshall prende le distanze dalla tendenza a decostruire l’immagine ben radicata nell’arte modernista e presente anche nella pittura degli anni Ottanta e ancora in molti dipinti dei nostri giorni. È come se dare certezza alle forme gli consentisse di (ri)costruire sulla tela l’identità della sua comunità.

I riferimenti alla storia dell’arte spaziano dagli arazzi medievali ai dipinti rinascimentali, dagli scenari del Barocco alle rappresentazioni rococò, ma anche all’arte moderna figurativa (da Édouard Manet a Matisse, da Piet Mondrian ad Ad Reinhardt), ma Marshall non ha mancato di esprimersi anche con il fumetto, un genere in cui i neri sono scarsamente presenti e sottorappresentati.

Per ritrarre gli afroamericani Marshall ha utilizzato a lungo un colore nero talmente profondo e piatto da sottrarre volume alle figure. Anche se a partire dal 2008 le ha modellate, sempre in maniera assai blanda, permane in esse l’oscurità uniforme della pelle dei soggetti, colti in un ampio scenario perlopiù coloratissimo. Il fatto che progressivamente le sue figure abbiano iniziato ad assumere volume, a mio avviso, va di pari passo con la visibilità che la comunità nera si sta conquistando nella società.

Spesso appese alla parete senza telaio, queste scene incentrate sulla vita sociale dei neri suggeriscono che è solo rimuovendo il baco del pregiudizio che si potranno creare i presupposti per contrastare le rovinose conseguenze sociali create da secoli di discriminazione. Del malessere generato da questa situazione Marshall dà esplicita testimonianza in un autoritratto del 1980 in cui, sagoma nera su fondo nero, esprime la condizione di chi si sente invisibile. A renderlo invisibile è la cultura dominante, che imponendo il suo modo di percepire il mondo esclude chi non è conforme ai suoi dettati culturami ed estetici.

 

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