La Galleria Borghese ha aperto le sue porte a Damien Hirst. L’8 giugno ha inaugurato Archeology now, che vede l’invasione delle sale della collezione del cardinale Scipione di ottanta opere del ciclo Treasures from the wreck of the unbelievable, realizzate dall’artista britannico nel 2017. Solo qualche giorno prima, a Palazzo Grimani a Venezia, dove è tornata di recente la raccolta di arte classica della famiglia nobiliare veneziana, sono arrivate le tele realizzate appositamente da Georg Baselitz per la Sala del doge, istallate nelle cornici di stucco che ospitavano i ritratti di famiglia del patriarca Giovanni andati dispersi.

Ad accomunare le due mostre, che vedono due protagonisti della scena dell’arte contemporanea esposti in luoghi simbolo della cultura italiana del XVI e XVII secolo è il nome del curatore: Mario Codognato. Veneziano, formatosi nelle università inglesi e nella galleria di Anthony d’Offay, Codognato ha tra l’altro diretto il museo Madre di Napoli e la collezione di arte contemporanea del Belvedere di Vienna, lavorando a mostre di artisti come Jannis Kounellis, Rachel Whiteread, Thomas Struth, Franz West, Francesco Clemente, Jeff Koons, Richard Serra, Anselm Kiefer, Robert Rauschenberg, Joseph Kosuth, Sol Lewitt. Attualmente è direttore della Anish Kapoor Foundation che aprirà l’anno prossimo a Palazzo Manfrin a Venezia. Meno esposto mediaticamente di altri curatori italiani di fama internazionale, Codognato è un punto di riferimento dell’arte contemporanea nel nostro paese.

Dialogo fra opere

«Mi è capitato spesso di curare mostre di autori contemporanei in musei o in contesti fortemente caratterizzati dall’architettura o dall’arte del passato, soprattutto in Italia, perché quelli sono i contesti a disposizione», spiega Codognato. «Nella mostra di Baselitz a Palazzo Grimani, il corpo umano è il punto focale dell’architettura rinascimentale dell’edificio e della ricerca pittorica dell’artista tedesco negli ultimi anni.

Certamente dialogano, ma sono due concezioni completamente diverse dell’umanità. I corpi idealizzati della scultura greco-romana collezionati da Grimani appaiono in contrasto con i corpi spettrali e in disfacimento di Baselitz». La mostra alla Galleria Borghese, che ha curato insieme alla direttrice del museo, Anna Coliva, è un dialogo e un confronto a tutto tondo con la storia del collezionismo, del rapporto tra artista e società. «Scipione Borghese collezionava antichità, pittura rinascimentale e arte contemporanea. Caravaggio era un suo contemporaneo», continua il critico. «La mostra di Hirst reitera questa sovrapposizione di cronologie diverse. Le opere della serie dei Treasures, esposte per la prima volta a Venezia a Palazzo Grassi e Punta della Dogana erano sorrette dalla narrativa immaginaria dell’antico vascello affondato in mezzo al mare da dove sarebbero state recuperate. Alla Galleria Borghese questa narrativa assume un’altra valenza e, in dialogo con le opere della collezione permanente del museo romano, l’attenzione si dirige alla straordinaria lavorazione e valorizzazione dei materiali usati, alla ripetizione circolare dei miti e dei canoni estetici. Le veneri di Hirst sono tratte dalla bambola Barbie che a sua volta trae le sue fattezze dai canoni estetici della Grecia classica.

Per evidenziarlo Hirst ha perfino lasciato il marchio Mattel scolpito nel marmo. Un gioco di rimandi continuo che avvolge tutto il percorso della visita, sala per sala». Una delle mostre a cui Codognato si sente più legato è Sleepless. The bed in History e in Contemporary art, allestita nel 2015 al Belvedere di Vienna. «Volevo fare una mostra antropologica sul letto. Un oggetto universale e che ha attraversato tutte le epoche della storia della umanità. Il luogo della nascita, dell’amore, della malattia, della morte». Si tratta, spiega, dell’oggetto antropomorfo per eccellenza, perché ha le stesse proporzioni del corpo umano.

«Ho messo insieme dipinti, sculture, installazioni, filmati, fotografie e documenti dall’antichità ai nostri giorni per ripercorrere attraverso il letto le contraddizioni dell’esistenza».

Contro i traumi del tempo

Se gli si chiede se ha mai paura di tradire il discorso di un artista, ponendosi come filtro opaco tra l’opera e lo spettatore, il curatore veneziano taglia corto: «I veri artisti non te lo permettono mai».

I punti di riferimento del suo lavoro vanno cercati tutti, o quasi, fuori dall’Italia. Innanzitutto in Inghilterra, dove si è laureato, «lì ho imparato a scrivere in maniera più sintetica rispetto al linguaggio tipico della critica italiana, che mi è meno familiare».

Da giovane, poi, ha avuto l’occasione di fare da assistente in più di un’occasione a Rudi Fuchs e a David Sylvester. «Installavano le opere come grandi coreografi alle prese con il palcoscenico. Riuscivano a ovviare agli imprevisti, improvvisando soluzioni che magari si rivelavano più efficaci del progetto originario». Nel 1996 assiste Fuchs mentre allestisce opere moderne e contemporanee dello Stedelijk Museum di Amsterdam tra quelle rinascimentali e barocche del Museo di Capodimonte di Napoli.

«Gli accostamenti non erano mai didascalici in senso iconografico o formale, ma evidenziavano una continuità nei secoli dei grandi temi dell’esistenza e della storia, a prescindere dal periodo in cui sono stati rappresentati. Alla Flagellazione di Cristo di Caravaggio era accostata una giostra di cavalli agonizzanti di Bruce Nauman. Entrambe le opere si basavano su un movimento circolare che visualizzava un accrescimento esponenziale di un’agonia al limite della sopportazione per lo spettatore».

Per quanto riguarda le letture, da studente, a segnarlo di più sono state quelle di Roland Barthes, Michel Foucault e della critica Rosalind Krauss, quest’ultima tra i fondatori di October, rivista nata nel 1975 in opposizione ad Artforum, che gli hanno trasmesso «la necessità di non fermarsi mai a una interpretazione unica della realtà, ma di analizzare il linguaggio e i linguaggi in profondità, le ragioni storiche della realtà contemporanea, i rapporti di potere e le loro diramazioni».

Più di recente si è dedicato con interesse alla lettura degli scritti dell’artista, film-maker e scrittrice tedesca Hito Steyerl, che ha analizzato i rapporti tra arte, tecnologia e società. «Nei suoi testi si chiede come dobbiamo porci nel nostro tempo nei confronti delle istituzioni dedite alle arti in un’epoca sempre più caratterizzata da una crescente disuguaglianza sociale e dal sistema capitalistico della tecnologia digitale».

E oggi? Di che mostre abbiamo bisogno? È come se avessimo bisogno di elaborare i traumi del tempo della pandemia. Ma molti dei progetti che stanno inaugurando in queste settimane, soprattutto i più ambiziosi, sono nati prima dell’arrivo del Covid. Non risultano avere qualcosa di anacronistico? «In realtà l’arte viaggia in parallelo con la vita, con la storia, ma non necessariamente in maniera sincronica», spiega Codognato: «Molti temi legati alla pandemia, o meglio ai suoi effetti, erano già presenti nel lavoro di tanti artisti, penso al tema dell’isolamento nel lavoro di Bruce Nauman o a quello della fiducia nella scienza nel lavoro di Damien Hirst».

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