È il 1976, Silvia Labayrú ha 20 anni, vive a Buenos Aires ed è incinta di sei mesi. In Argentina sono gli anni della feroce dittatura militare guidata da Jorge Rafael Videla e chiunque si opponga al regime viene sequestrato e fatto sparire in uno dei centinaia di centri clandestini di tortura e sterminio sparsi per tutto il paese.

Labayrú milita nei Montoneros, la principale forza della guerriglia armata che si oppone alla dittatura e un giorno i soldati la rapiscono e la sequestrano alla Esma, una scuola per i cadetti della Marina argentina che in quegli anni funzionava come centro clandestino. La donna rimane per un anno e mezzo sequestrata in quell’inferno fatto di terribili sevizie e privazioni, ma quando esce da lì per lei inizia un altro incubo.

Molti fra i suoi ex compagni di militanza la assillano con le domande: perché sei sopravvissuta, perché non ti hanno ucciso? La isolano accusandola di essere stata “l’amante” dei militari. Ma Silvia, come altre decine di prigioniere, non è mai stata una “amante”: è stata costretta – mentre era sequestrata e torturata – a simulare una relazione con uno dei propri aguzzini.

Lo stigma di “amante” e “venduta” inseguirà Labayrú e tante altre sopravvissute per moltissimo tempo, fino a quando – dopo anni di lotta nelle aule di tribunali e non solo – riusciranno ad essere riconosciute per doppie vittime, prima da parte di un regime e poi da parte dei propri ex compagni che le hanno isolate e giudicate.

Questa è la storia al centro di La chiamata, l’ultimo libro (pubblicato in Italia da Sur) di Leila Guerriero, una dei giganti argentini della letteratura contemporanea.

Una delle scrittrici più importanti dell’intero continente latinoamericano quindi racconta la storia di Silvia Labayrú, che in Argentina è stata una delle più note voci nei processi fatti contro il regime di Videla, in modo inedito e differente. Il lavoro è monumentale e mostra Labayrú nella sua interezza, mostrandola non solo nelle vesti di militante, vittima o sopravvissuta, ma come persona, presentandola al lettore fra le sue mille contraddizioni e caratteristiche. Nulla è lasciato al caso e la vita di Silvia viene ripercorsa completamente, senza tralasciare nemmeno l’infanzia, il rapporto con la famiglia o con l’amore.

I conti con la dittatura

L’Argentina è un paese estremamente politico, e la politica si ritrova ovunque nell’ultima opera di Guerriero, tanto nella scelta delle parole da parte dell’autrice come nelle decisioni prese dalla protagonista. L’Argentina, oggi governata da Javier Milei – l’“anarchico-capitalista” apertamente negazionista dei crimini commessi durante la dittatura di Videla – è conosciuta nel mondo come esempio per le politiche di stato che hanno garantito verità, memoria e giustizia per le vittime del regime.

Ad oggi sono oltre 1000 le persone che sono state condannate per i crimini commessi durante la dittatura, che ha sequestrato, ucciso e fatto sparire almeno 30mila persone. Ma, negli ultimi 10 anni, c’è stato un altro importantissimo processo politico e sociale che ha attraversato il paese, scuotendolo nel profondo: la rivolta femminista, iniziata con la creazione del movimento argentino Ni una menos, nel giugno del 2015.

Il piano di “rieducazione”

Entrambi questi due processi sono rievocati egregiamente in La chiamata. Prima di tutto al lettore viene spiegato senza nessun tipo di edulcorazione quello che, durante la dittatura, accadeva nei centri di sterminio. Non è stato un caso isolato, ma Silvia Labayrú spiega molto chiaramente all’autrice il piano di “rieducazione” ideato da uno dei dirigenti del centro clandestino che funzionava all’interno dell’Esma, il capitano Jorge Eduardo Acosta, conosciuto come “El Tigre”, che – nei racconti delle sopravvissute – era uno dei più feroci torturatori che si dedicava a seviziare i prigionieri e a stuprare le detenute.

Secondo Acosta i detenuti potevano “redimersi” grazie al suo programma di “rieducazione”, e – per le detenute – uno dei principali compiti di questo programma era di avere relazioni sessuali con i propri aguzzini. Ma la violenza sessuale non bastava, le prigioniere dovevano simulare di avere un rapporto sentimentale con i militari. Venivano fatte vestire con gli abiti più belli delle prigioniere già morte e poi erano obbligate a uscire a cenare o a ballare con i loro aguzzini. Alcuni di questi stupri si sono prolungati per anni, con i militari che obbligavano le sopravvissute a mantenere queste finte “relazioni” anche una volta uscite dai centri clandestini di tortura e sterminio.

Le scritte in rosa 

Oggi l’Esma è stata trasformata in un museo e, appena si entra, su grandi pannelli neri viene raccontato chiaramente ciò che accadeva in quel luogo. Il testo è scritto in stampatello bianco, ma le scritte sono state modificate con aggiunte di colore rosa. In quelle aggiunte, le sopravvissute hanno voluto spiegare ciò che soffrivano le prigioniere del regime per il solo fatto di essere donne.

Hanno corretto, anche nei pannelli dell’Esma, il racconto maschilista che veniva fatto delle torture riportando l’attenzione su ciò che avevano subito. La battaglia delle sopravvissute per vincere il pregiudizio dei propri ex compagni di militanza e della società è raccontata magistralmente da Leila Guerriero.

Le condanne 

Silvia Labayrú, insieme ad altre due sopravvissute, ha portato questa battaglia anche nelle aule di tribunale. Nell’agosto del 2021 infatti si è concluso uno storico processo con cui sono stati condannati due militari (fra cui Acosta) per i delitti sessuali commessi dentro all’Esma: è stata la prima sentenza del genere nei tribunali argentini. Un risultato importantissimo per le sopravvissute che hanno lottato anni per far riconoscere, non solo nei tribunali ma anche nella società, ciò che erano state costrette a subire. Silvia, davanti ai giudici e all’autrice del libro Leila Guerriero, ha sempre raccontato con disarmante chiarezza quanto accaduto.

«I nostri corpi per i militari dell’Esma erano un bottino di guerra», ha testimoniato più volte. «La violenza sessuale faceva parte di un piano comune e sistematico usato dai soldati della dittatura per distruggere l’animo delle donne sequestrate». Ma, anche nei tribunali argentini, ottenere giustizia non è stato affatto facile. Basta pensare che, dopo quasi 40 anni dalla violenza, i giudici abbiano chiesto a Labayrú di sottoporsi a un esame fisico per comprovare eventuali lesioni e che fino al 2010 gli stupri erano considerati dalla giustizia argentina come “tortura” e non come un crimine a sé stante.

«Per anni siamo state allontanate dai nostri ex compagni di militanza e guardate con sospetto», ha spiegato spesso Silvia: «Perché non si riusciva a capire che noi non potevamo essere consenzienti: sarebbe stato impossibile. Una donna che vive sotto costante minaccia di morte non potrà mai esercitare il proprio libero arbitrio con il proprio aguzzino, non esiste il consenso in quella situazione».


La chiamata. Storia di una donna argentina (Sur 2025, pp. 456, euro 23) è un libro di Leila Guerriero 



 

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