Cosa rende unica una città? Perché Amsterdam è Amsterdam? E perché Bologna è Bologna? Per lo scrittore olandese Jan Brokken, viaggiatore indefesso, ciò che rende una città diversa da tutte le altre sono le anime che l’hanno attraversata. Raccontare quelle vite, come fa in L’anima delle città, che esce adesso per Iperborea tradotto da Claudia Cozzi, significa rivelare il volto nascosto dei luoghi.

Il mondo è il dettaglio

A prima vista il libro è una raccolta di pezzi scritti per le occasioni più diverse, dal reportage per una rivista fino a un programma di sala per un concerto, ma girata l’ultima pagina si scopre che questo è forse il libro più bello di Brokken dopo Anime baltiche (2010) e lo è per ragioni che vedremo.

La prima è senza dubbio la curiosità con cui l’autore, classe 1949, racconta la città dove vive, Amsterdam, ma anche Bologna, Bergamo, Cagliari, Parigi, San Pietroburgo, Kyoto. C’è un filo dunque che lega questa nuova raccolta di viaggi con quelli nel baltico: una vecchia strada di Vilnius per Brokken vale quanto la salita a Bergamo Alta, per raccontare la morte di Gaetano Donizzetti; le campagne intorno a Riga sono, per lui, tanto interessanti quanto i portici di Bologna, dove passeggiava Giorgio Morandi. Ogni luogo, ancorché piccolo, è mondo.

Per Brokken il mondo non è la vastità, ma il dettaglio, il particolare. Solo a un certo punto, come una rivelazione, si capisce il motivo per cui Brokken ha scelto come esergo al volume una citazione de Le città invisibili di Italo Calvino: «L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa… Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono».

A Calvino, Brokken torna nel libro per raccontare la madre, Eva Mameli Calvino, sarda, scienziata e naturalista, partendo da un proprio ricordo: le passeggiate nei giardini botanici con il nonno e la passione per le palme.

Che la scrittura di Brokken sia frizzante e prevalentemente soggettiva non toglie che la sua – e questa è un’altra delle ragioni della bellezza del libro – sia la lezione di un grande reporter che fa dialogare passato e presente, l’esperienza personale con i documenti, gli archivi e le testimonianze. Il campo di ricerca è la città, ma la città attraverso l’incontro.

Può essere qualcuno che all’inizio ci arriva con riluttanza, come capitò al compositore Gustav Mahler ad Amsterdam sui primi del Novecento; il direttore viennese ci venne per dirigere la sua Settima sinfonia e rimase indifferente a ciò che la città aveva di più esteriore, le «mezzetinte», «le dolci increspature dell’acqua», «il fascino ebraico». Finì invece per amare qualcosa di cui sulle prime diffidava, cioè l’ospitalità a casa del direttore d’orchestra olandese di origine tedesca Willem Mengelberg, amico inaspettato, grande interprete della sua musica. Mahler scoprì che Amsterdam «sapeva ascoltare» ed è questo che Brokken ci vuole raccontare della sua città.

La polvere di Morandi

Il suo oggetto può essere invece, come il pittore Giorgio Morandi, qualcuno che dalla sua città non si è mai staccato. Addirittura, non ha mai lasciato la casa materna, continuando a stare per tutta la vita con le sorelle. Ennio Flaiano diceva: «Non chiedete alle bottiglie di Morandi cosa contengono: sono l’espressione di mondi possibili». Sembra che Brokken abbia voluto infrangere l’intimazione di Flaiano e cercare di capire quali potessero essere questi mondi. Ed eccolo, molto compiaciuto, prendere alloggio a Bologna, sprofondare nelle trattorie e nelle strade intorno alla leggendaria via Fondazza, dove il grande artista aveva il suo piccolo atelier.

Brokken è talmente innamorato di Bologna da sconfessare una vita passata tra aerei, treni, strade ignote ai quattro angoli del globo: «Io Morandi lo capisco» attacca il suo racconto, «quando sei cresciuto in una città come Bologna, non hai bisogno di andare a vedere se la vita sia meglio altrove».

Brokken racconta tante cose del pittore: la vita cominciata nel 1890, la modestia, il cappello floscio sempre in testa, l’amore per le sorelle, il celibato mai infranto, l’alta statura (un metro e novanta), la timidezza, le uniche sei città visitate nell’arco di una vita e la casa di campagna, molto prossima, che a un certo punto, quando il successo già lo aveva raggiunto, fece costruire in stile contadino.

Qui dipinge paesaggi, con «i colori tenui come visti da dietro a una finestra appannata». Nel terribile 1943 dipinge un solo quadro: ancora una collina con gli stessi colori slavati. E poi autoritratti «sfocati». Dice Brokken: «Anche in questo mi riconosco, nella paura di vedere sé stessi». E racconta della polvere sulle bottiglie allineate nell’atelier, che Morandi chiedeva alle sorelle di non spolverare. Un mondo possibile: quello in cui non si scappa ma si resta? Quello in cui il paesaggio più familiare è anche quello più gravido di meraviglie? Forse. Qui il reportage di Brokken si fa interrogazione esistenziale: ecco qui il terzo motivo per cui il libro è bello.

Echi, connessioni, richiami

Da via Fondazza, dove un uomo dipinse solo bottiglie e non ebbe mai una storia d’amore, al 12 di Rue Cortot, Montmartre, Parigi, dove un altro uomo visse un’unica storia d’amore e compose moltissima musica ma sarà ricordato solo per tre piccole, miracolose miniature per piano. Le Gymnopédies di Erik Satie, infatti, sono ancora oggi (insieme alle sei Gnossiennes) una tra le suite più celebri ed eseguite della musica classica. Ancora oggi sono ammantate di mistero, in quel loro minimalismo ante litteram.

Satie viveva in nove metri quadrati e lì dentro per sei mesi amò con passione la pittrice e modella Suzanne Valadon, che fece il più buffo ritratto del suo amante e poi lo mollò. Attenzione: nel ripercorrere la vita di Satie il rischio è sempre di cadere nel pittoresco. Brokken lo evita, raccontando invece la storia di un grande artista di origine scozzese, rigoroso, ammiratissimo (da Debussy, per esempio), spesso scontroso e sempre ai limiti della miseria.

Ebbe due grandi mazzate: da giovane l’amore infelice di Suzanne e poi lo scandalo di Parade, il balletto che scrisse insieme a Jean Cocteau con le scene di Picasso e le coreografie di Léonide Massine. Andò in scena in piena Grande Guerra, nel 1917. Fu fischiato: sembrò un frivolo insulto in mezzo alla sofferenza del conflitto. Con quello spettacolo nacque il surrealismo, la definizione la coniò Appollinaire, che era tornato dal fronte con delle schegge nel cranio e poi morì di febbre spagnola.

A osservare le immagini delle scene e dei costumi riportate nel libro si capisce che era una genialata di Cocteau, avanguardia pura, dentro la quale però Satie finì triturato. È straziante il racconto di Brokken: la colossale misantropia di Satie era una facciata, perché a cinquant’anni era ancora capace di grande entusiasmo, di buttarsi in un’avventura collettiva con lo spirito di un ragazzo alle prime armi. 

Dalla Parigi del 1917 quel tipo di sofferenza conduce Brokken alla San Pietroburgo del 2019. Questa volta i metri quadri sono 39: ci vive un vecchio critico musicale, Iosif Raiskin con la moglie. Di lui Brokken conosceva il celebre libro sul compositore Shostakovich.

Un giorno, ad Amsterdam, aveva conosciuto il figlio Daniel, violinista e direttore, che era scappato dall’Unione Sovietica. Gli proponeva di andare a conoscere il padre in Russia. Brokken ci va e scopre un’altra storia, la vera grande storia di quella famiglia: quella dell’altro figlio, il violoncellista Boris, che nel 1988 anche lui aveva lasciato la patria riparando a New York insieme alla giovane moglie Ljuba, pianista. Ma come Suzanne Valadon cento anni prima, anche Ljuba un certo giorno se ne va e Boris, a trentaquattro anni, nel 1997, si suicida. Non è finita: nei 39 metri quadri, il vecchio malinconico Iosif racconta a Brokken di aver conosciuto Youri Egorov, il pianista che era stato, pure lui, esule ad Amsterdam, morto di Aids proprio nell’88, amico di Brokken e protagonista del suo famoso libro Nella casa del pianista.

Improvvisamente, una storia ne completa un’altra – e questo è il quarto e ultimo motivo per cui questo, come Anime baltiche, ci sembra un libro necessario. Echi, connessioni, richiami... «Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa…». Ripensando a Calvino, Brokken sembra dirci che, in fondo, tutte le città sono invisibili, perché sono quelle che ci portiamo dentro.


Jan Brokken parteciperà il 4 novembre al festival di Venezia Incroci di civiltà. L’uscita del libro è accompagnata da un podcast realizzato da Natascha Lusenti, in collaborazione con l’ambasciata e il consolato del regno dei Paesi Bassi.

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