The Third Day, miniserie Hbo e Sky, è un’opera di altissimo livello. Un’operazione ambiziosa, a firma di Felix Barrett e Dennis Kelly, un horror drama ambientato nell’isola di Osea.

Esiste davvero, l’isola di Osea: all’estuario del fiume Blackwater, nell’est dell’Inghilterra. È minuscola: un chilometro e mezzo di superficie, collegata alla terra da una strada rialzata, impraticabile per la maggior parte del tempo per via dell’acqua alta.

Ci arriva – e, com’è prevedibile, ci rimane – il protagonista Sam, stupendamente interpretato da Jude Law, un uomo dal passato difficile, devastato dal lutto della perdita del figlio più piccolo.

Ci arriva apparentemente per caso, dopo un incontro nel bosco con una ragazza: trova la piccola comunità isolana in fermento per l’imminente festival locale, Esus and the Sea. Gli abitanti, però, non sono pacifici come sembrano: la patina pittoresca fa presto a incrinarsi.

La presenza di Sam a Osea scatena una spirale di eventi misteriosi: l’isola diventa una grande installazione onirica e claustrofobica, il teatro di una disturbante discesa agli inferi del fanatismo, della psicosi, del senso di colpa.

The Third Day è strutturata in due parti separate da un intermezzo. I primi tre episodi vengono raccontati dal punto di vista di Sam. La seconda parte dello show ruota invece intorno al personaggio di Helen (Naomie Harris), arrivata a Osea qualche tempo dopo, la cui vicenda andrà a intrecciarsi con quella di Sam.

Fra le due c’è un intermezzo, una sorta di happening teatrale – una grande cerimonia di iniziazione che è consistita (la si ritrova con facilità su internet) in una diretta di dodici ore sul canale Facebook della Hbo.

Un’acida macchina catartica

Dennis Kelly, co-creatore della serie, è uno fra i più talentuosi e premiati scrittori inglesi, e se da noi non è famoso quanto dovrebbe è solo perché la sua attività si svolge prevalentemente in ambito teatrale, un genere che in Italia viene sistematicamente e colpevolmente trascurato dal discorso pubblico.

La sua precedente incursione nel serial tv era stata una ferocissima black comedy, Utopia, una farsa tragica incentrata sul complottismo. Ora con The Third Day, Kelly ritorna con un’opera dolorosa e psichedelica, un’acida macchina catartica.

Ci ritroviamo chiusi nostro malgrado su un isolotto asfittico, assediato dall’acqua, circondati da abitanti dalle tradizioni folcloriche piuttosto discutibili per chi viene dalla terraferma. La strada verso l’esterno compare e scompare a seconda della marea: l’isola di Osea diventa il luogo di una connessione precaria e altalenante, indipendente dalla volontà. E cosa c’è di più terrificante, per un uomo d’oggi, di un luogo dove non si è connessi, da cui non si può scappare, e dove per giunta il telefono non prende mai?

A Osea tutto si svolge nell’umido, nell’impasto fra terra e acqua. Ci sono ovunque buchi pieni d’acqua, pozzi, forre, foschie, canali, acquitrini. I Celti credevano che l’isola fosse «l’anima del mondo»: e gli abitanti ne hanno conservato la convinzione. Hanno la pretesa, tutta religiosa, che i loro eventi abbiano un significato universale.

Il tema religioso domina infatti The Third Day dall’inizio alla fine: è quello, più ancora dell’elemento psicotico in sé, a rendere l’isola un palcoscenico morbosamente affascinante. La religiosità di Osea si rivela – come da copione – tossica, fanatica, impazzita. Vediamo scatenarsi tutto un armamentario di riti neopagani, cerimonie ancestrali, maschere abominevoli, sacrifici animali, profezie e ossessioni mistiche.

È uno degli elementi più interessanti di The Third Day: funziona da bacino di confluenza di tutto un immaginario legato a una certa idea del religioso. Come se un inconscio collettivo avesse rimosso il tema negli ultimi anni e l’avesse poi riproiettato, orrificato, nei suoi incubi più vividi.

Pulsioni inconsce

Come insegna Freud, quello che cacci dalla porta torna dalla finestra: il genere horror ha in fondo sempre funzionato così, come spia di una pulsione inconscia, come contrappeso buio della comunicazione ufficiale.

Il mostro è sempre stato “l’indicibile” del discorso pubblico, e ogni momento ha il suo. Quello di oggi, forse, è il fanatico, lo psicopatico, il mistico impazzito. Viene da chiedersi se la fortuna di questo immaginario non sia anche la conseguenza di un discorso culturale (ma forse anche politico e confessionale) che, affidando alla scienza il monopolio sul conoscibile e relegando tutto il resto nel campo dell’emotività o del weird, rimuove in blocco tutto ciò che pertiene all’ambito del “religioso”, buttando via il bambino insieme all’acqua sporca. Ma il rimosso, si sa, non scompare mai: piuttosto tende a “mostrificarsi”.

Sbaglia chi crede che le religioni stiano perdendo terreno nel mondo. A essere in crisi è casomai il nesso fra religioni e cultura. O meglio: lo sforzo delle religioni di produrre una cultura e di situarsi organicamente in essa.

Oggi le religioni prosperano e vivono (soprattutto fuori dall’Europa), e lo fanno sempre più al di fuori di una razionalità coerente e di un impianto culturale forte. Religione e cultura si pongono sempre di più come mondi diversi e in progressivo allontanamento: due mondi che si parlano poco e che anzi spesso si concepiscono come contrapposti.

Di questa lontananza The Third Day ci offre un esempio tipico: temi e domande – i concetti di colpa e catarsi, di soprannaturale, di tradizione, di comunità – un tempo familiari al dibattito culturale, diventano qui terra selvaggia, un hic sunt leones che assume le forme del fanatismo, del delirio, della psicosi.

L’opera di Kelly mette in scena i nostri tentativi di un neopositivismo inconsapevole e irrisolto. Se – com’è ormai riconosciuto da chiunque – l’horror ha raggiunto in questi anni una piena dignità artistica, liberandosi dall’etichetta di genere di serie B, forse è proprio perché sta funzionando come reazione a un cattivo illuminismo. Se è vero che ogni paura nasconde un desiderio, ogni attrattiva – anche la più malsana – segnala un bisogno: il perturbante, scriveva Freud, è la visione di «qualcosa che non è dove dovrebbe essere».

Non sarebbe neanche la prima volta che l’arte fa da spia a un illuminismo inappagante. Quel che più mi ricordano le immagini acide e disturbanti di The Third Day sono le angoscianti “pitture nere” che Francisco Goya dipinse nella “Quinta del Sordo” tra il 1819 e il 1821.

Erano gli anni in cui in Spagna veniva ripristinata la monarchia assoluta, e Goya veniva espulso dalla corte di Ferdinando VII. Quei quadri terrificanti, oggi al Prado, sono forse l’esempio più lampante di horror nella storia dell’arte. Lì era tutto plumbeo e nero; qui di un bianco livido e cattivo: l’incubo ha tracimato anche nelle ore diurne.

Il sonno della ragione genera mostri: così s’intitolava appunto un’opera di Goya. Un suo manoscritto (conservato nella biblioteca nazionale di Spagna) riporta un commento che potrebbe figurare benissimo come sottotitolo a The Third Day: «Quando gli uomini non ascoltano la voce della ragione, tutto muta in visione».

L’angosciante, visionaria discesa agli inferi di Sam ed Helen potrà essere vista come l’ennesima formulazione di un’esigenza: quella di un illuminismo più scomodo e più aperto, una razionalità più spericolata – più rischiosa. Giacché sappiamo come va: le domande che non trovano risposte, si trasformano i sogni; e dal sogno all’incubo il passo è breve.

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