Non serve essere un estremista di destra per osservare gli sforzi dei grandi brand internazionali e dei conglomerati audiovisivi, soprattutto nordamericani, per apparire virtuosi e inclusivi, talvolta tingendosi con i colori dell’arcobaleno.

Un estremista, però, si spingerebbe a concludere che questi sforzi rispondono a un progetto occulto calato dall’alto. Invece è sempre la solita vecchia storia: la società cambia, seguendo sia megatrend secolari che mode passeggere, e il mercato si adatta. In questo caso facendo “woke washing”, lo sbiancamento dell’anima per citare il formidabile titolo di Rocco Tanica (Mondadori).

Nel suo Capitalismo woke, appena uscito per Fazi, Carl Rhodes parla della «moralità aziendale» addirittura come di una «minaccia per la democrazia». Il vero pericolo, secondo lui, è che questo «consolidi ulteriormente la concentrazione del potere politico nelle mani di un’élite aziendale». Per Rhodes le soluzioni simboliche sono un contentino dato al posto delle vere rivoluzioni. Mascherando i conflitti, avrebbero una funzione conservatrice.

E d’altra parte in che modo, senza essere un pochino woke, sarebbe possibile nel 2023 organizzare efficacemente una società (e una forza-lavoro) multiculturale? Come rivolgersi a una platea di consumatori in costante domanda di riconoscimento? Insomma quale sarebbe l’alternativa a questo poderoso giro di vite negli sforzi d’inclusione, che appare affettato e affrettato soprattutto perché abbiamo rimandato il problema per decenni? Questo è il problema.

Ipocrisia?

Del dibattito sorto a sinistra testimoniano alcuni articoli pubblicati nelle ultime settimane sul Tascabile e su Jacobin, che si aggiungono alla voce di testate come DinamoPress (vedi gli articoli di Emma Catherine Gainsforth) e Micromega (vedi quelli di Cinzia Sciuto e Federica D’Alessio) che l’avevano affrontata in tempi non sospetti.

All’insegna del più classico “contrordine, compagni” in questi articoli si sostiene che forse il politicamente corretto è andato un po’ troppo lontano. Ma a sinistra il tema è più divisivo che altro: il posizionamento di Micromega, ad esempio, non ha frenato il calo di lettori della storica rivista, che in questi giorni ha lanciato una sottoscrizione online per evitare la chiusura (restano pochi giorni per chi volesse dare un contributo).

Qualcuno dirà che le multinazionali sguazzano nell’ipocrisia. Ma se l’ipocrisia consiste in uno sfasamento tra la condotta pubblica e i sentimenti reali, duole dover ricordare che le aziende non hanno sentimenti, quindi la questione è mal posta. Le aziende si adattano a un mondo che cambia e lo fanno nel modo goffo e massimalista e conformista delle multinazionali. Ma l’ipocrisia è anche, come ricorda il filosofo Leonard Mazzone in un bel libro sull’argomento pubblicato per i tipi di Orthotes nel 2021, «il più socievole dei vizi» – un fattore di coordinamento delle condotte, e per secoli il motore della civiltà.

In fondo, come scriveva Adam Smith, non è certo dalla benevolenza del macellaio che ci aspettiamo la nostra bistecca (rigorosamente vegan) ma dal suo bieco interesse. Nello stesso modo, non è dalla benevolenza della classe manageriale e intellettuale che ci dobbiamo aspettare l’inclusione, ma dalla cura che ha del suo capitale… morale.

In realtà il sociologo Pierre Bourdieu aveva distinto tre forme di capitale: quello economico, quello sociale e quello culturale. Se il primo ci è noto in quanto indica il patrimonio materiale e finanziario, il secondo e il terzo sono più originali.

Il capitale sociale indica il “valore” che il gruppo attribuisce a ogni singolo individuo in funzione delle relazioni che questi intrattiene con gli altri membri del gruppo. Questo valore può essere inteso come una semplice metafora anche se alcuni sociologi ed economisti si sono spinti a cercare di quantificarlo.

Pensiamo al programma di Credito sociale cinese, che attribuisce a ogni individuo un punteggio in funzione di vari indicatori, tra cui la sua fedina penale, o più banalmente ai social network, dove un algoritmo calcola il peso di ogni nodo nella rete.

Il capitale morale

Il capitale sociale è dunque ciò che, indipendentemente dalle proprietà materiali e finanziarie effettive, fa che un individuo sia creduto o meno, ammirato o disprezzato, amato o odiato, oppure assunto per un certo lavoro. È una forma di capitale nel senso che, proprio come il denaro, lo “spendiamo” per acquisire in cambio fonti di reddito e ulteriori relazioni.

Se dovessimo dire “dove si trova” materialmente il capitale sociale, potremmo dire che vive distribuito nella memoria di tutti gli individui. Il capitale sociale di ogni individuo è l’insieme dei ricordi, delle opinioni, delle aspettative, dei debiti e dei crediti, che ognuno degli altri ha di lui.

La “correttezza” percepita della nostra condotta, insomma, influenza il nostro capitale sociale: si parla allora di moralità ostentata o “virtue signaling”. Questo vale per gli individui come per le aziende, che devono sempre fare attenzione a quella particolare forma di capitale sociale che è, appunto, quello che possiamo chiamare il capitale morale.

Il capitale culturale, invece, serve a descrivere il patrimonio di conoscenze e di competenze che l’individuo possiede – e attraverso il quale può acquisire capitale sociale, morale, e poi economico. Nel capitale culturale si possono includere le lingue parlate, i codici culturali, la cultura generale, le soft e le hard skills, nonché i titoli di studio, che sono un capitale culturale istituzionalizzato.

Il capitale culturale ha davvero valore solo quando è legittimo, ed è legittimo quando corrisponde ai valori della cultura dominante. Esistono, ad esempio, dei codici culturali che esibiscono un’appartenenza alla classe borghese e alla classe intellettuale, in assenza dei quali l’individuo viene riconosciuto come un parvenu o uno zotico.

Si tratta di certi modi di esprimersi, di un accento, di un modo di vestirsi o di certi gusti artistici. In certi contesti, esibire i tratti di un moderato progressismo serve da segno di riconoscimento all’interno del secondo strato delle élite tecnocratiche. E oggi, sempre di più, sapere gestire in modo “corretto” le differenze interculturali e le relazioni di genere discende dal capitale culturale acquisito.

Nuove élite

Secondo Bourdieu, questo capitale culturale è trasmesso principalmente dalla famiglia e dal contesto sociale di provenienza. Questo porta, dietro la maschera del merito, alla riproduzione delle ineguaglianze. Non bastano né la scuola dell’obbligo né l’università a cancellarle.

Oggi l’accesso disintermediato alla rete rende un po’ più facile l’acquisizione di capitale culturale necessario per essere riconosciuti all’interno di un gruppo. E nello stesso è così grande la quantità di competenze e la frequenza degli aggiornamenti richiesti, che l’accesso al capitale culturale continua a costituire un fattore di diseguaglianza. In un certo senso, non essere aggiornati sui codici di comunicazione interculturale – che sono evidentemente acquisiti e tutt’altro che innati – equivale a non conoscere le regole basilari dell’educazione. Con i medesimi effetti sociali. La linea di faglia passa, oggi, tra chi conosce e chi non conosce la regola del gioco.

La maggioranza della popolazione italiana non sembra molto toccata dalla questione: nel nostro paese la domanda di capitale culturale resta piuttosto bassa, e i complessi codici in uso nel mondo protestante – dove hanno sede molte multinazionali – sono ancora assai poco diffusi.

Ma per chi lavora nel mondo culturale, nei media, nella comunicazione, per chi si rivolge a interlocutori internazionali o opera in contesti multietnici, in generale per chi ha molta visibilità, insomma per le “nuove élite” del mondo contemporaneo, la sensibilità alle trasformazioni dei codici è una competenza necessaria. Per questo anche le élite, inevitabilmente, dovranno diventare arcobaleno.

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