«Quando da bambino provai ad aprire per la prima volta la Commedia mi trovai di fronte a versi come “Il tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia”. Mi divertii molto. A quell’età, che corrisponde a una certa fase dello sviluppo psicologico secondo Freud, sentir parlare di “merda” era divertente. Non solo. Mi permetteva di prendermi una serie di “sfizi” di fronte ai genitori, ai maestri di scuola che mi imponevano un certo linguaggio, e allo stesso tempo erano prontissimi a dire che Dante è il padre della lingua. Io mi prendevo una rivincita dicendo “io parlo come parla Dante. Posso dire quello che voglio”».

Parla Federico Sanguineti, filologo acerrimo, figlio del poeta, dantista e avanguardista Edoardo (la sua Interpretazione di Malebolge è un classico della critica dantesca), studioso di Dante in una prospettiva ben diversa da quella poi transitata nella umma del Dante ottocentesco, del Dante desanctisiano e poi crociano, del Dante insomma, variamente abusato come padre della patria, linguistica e politica. Sanguineti - professore ordinario di filologia italiana all’Università di Salerno - oltre ad avere criticato, sulla base di prove filologiche serie, l’edizione dantesca più in voga, quella curata da Giorgio Petrocchi, ha scritto un libro breve, raffinato, controcorrente: Le parolacce di Dante Alighieri (Tempesta Editore, prefazione di Moni Ovadia), in cui si spiega e si motiva la portata “sovversiva” di Dante, ben oltre il monumento celebrativo dei settecento anni dalla morte. «Volevo provare a scrivere una cosa che non avesse nulla di accademico, finalmente. E invece ponesse dei problemi nella loro naturale evidenza».

L’ontoso metro

Una delle naturali evidenze dantesche è nell’«ontoso metro», come si accennava. Dante usa molte parolacce. Si pensi a nomi e aggettivi nel XVIII canto dell’Inferno, come “sterco” (v. 113), “merda” (v. 116), “merdose” (v. 131) e “puttana” (v. 133). O a un verbo, nel XIX canto dell’Inferno, come “puttaneggiar” (v. 108). Ci si imbatte in un verso come “ed elli avea del cul fatto trombetta” (nel XXI canto dell’Inferno, v. 139) si arriva alla bestemmia: si incontra chi le mani alza «con ambedue le fiche, / gridando: “Togli, Idio, ch’a te le squadro”» (Inferno, XXV canto, verso 2-3).

Ora, l’uso di parole “basse”, del cosiddetto “sermo humilis” è una tradizione antica: si parte niente di meno che da Aristofane, si passa per l’Antico e il Nuovo testamento. L’uso di parolacce che non siano solo rappresentazione della parlata di strati sociali bassi, ma abbiano un significato più profondo – certo, anche religioso – è stato indagato in un libro magnifico di Erich Auerbach, Mimesis (Einaudi). All’epoca di Dante, l’uso delle parolacce era consolidato nella tradizione della poesia comico-realistica, ad esempio in Cecco Angiolieri. Ma precisamente, domandiamo a Sanguineti, perché Dante usa le parolacce, e ne usa così tante?

Attacco alla borghesia

«Cecco Angiolieri usava le parolacce per fare una sorta di gioco di società», risponde Sanguineti. «Veniva da una famiglia di finanzieri legati al papato. La libertà linguistica di Angiolieri è la libertà linguistica di una classe sociale di banchieri che, perdoni il termine, dice quello che cazzo vuole. Mentre nel caso di Dante non si tratta di un gioco di società, ma di un’operazione morale e politica. E il realismo di Dante è nel fatto di associare certe forme a certe classi sociali. Dante usa le parolacce per lo più nell’Inferno, e l’inferno è il regno della borghesia. Nell’inferno si trova, in blocco, la “Firenze che conta” di allora».

La cosa buffa è che la borghesia fiorentina, ricca, in crescita, detestata da Alighieri, piccolo nobile dalle aspirazioni politiche frustrate, decreta l’immediato successo editoriale della Commedia. Fiuta l’affare. Finanzia, profumatamente, copie su copie manoscritte del poema che la condanna all’inferno. Vende la corda con la quale Dante la impicca, per citare Lenin?

«Esattamente, solo che il borghese non ha l’orizzonte teologico. Dell’inferno, del purgatorio, del paradiso non gliene importa nulla. Sa benissimo che sono cose che si comprano e si vendono» risponde Sanguineti».

In breve la mossa stilistica, ideologica, artistica, di Dante si inquadra nelle lotte che seguono all’emergere, per la prima volta al mondo, della borghesia capitalista. Dante non appartiene a una scuola poetica, ma nel feroce far west del Trecento toscano c’è tutto un esprimersi di posizioni in contrasto: Cecco Angiolieri, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Dante da Maiano, Dante Alighieri, e gli altri. Secondo Sanguineti la stessa nozione di “dolce stilnovo” è stata inventata dopo, per unificare quello che non è unificabile: «Il dolce stilnovo non è mai esistito. La parola “stilnovismo”, dai dizionari di De Mauro e Cortelazzo/Zolli, è datata 1942. “Stilnovo” è un’espressione che si trova in alcuni manoscritti del Purgatorio, ma è dubbia, è un probabile errore di qualche copista. È un’invenzione che serve alla borghesia per appiattire tutto quello che succedeva a Firenze».

Ma la posizione di Sanguineti sull’atteggiamento politico di Dante va anche oltre, rispetto ad altre letture marxiste che ci sono state: «Io non credo che Dante fosse politicamente un conservatore, come è stato detto, e poi invece fosse un realista in poesia. Sono convinto che le posizioni di politica di Dante siano estremamente innovative. Traducendo tutto questo in due parole: la prospettiva di Dante è quella di una società senza più proprietà privata. La monarchia di Dante non c’entra nulla col vecchio impero e papato dell’alto (o del basso) Medioevo. Dante pensa a un imperatore che detiene la proprietà privata di tutto quello che c’è sul pianeta, e che distribuisce poi secondo i meriti e bisogni a ciascuno».

Un comunista puro, insomma? «Come sono comunisti gli apostoli negli atti. Vendono tutto e distribuiscono a chi ne ha bisogno» Vero. Ma qui serve l’avvocato del diavolo: quello degli atti degli apostoli, è comunismo “spiritualistico”, mediato da una trascendenza religiosa, non da una dialettica storica. «Guardi che anche il comunismo di Marx era limitato rispetto a quello apostolico. Marx non è per l’abolizione della proprietà privata in assoluto, è per abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Si accontenta di ben poco rispetto a Dante».

Quindi, secondo Sanguineti, siamo di fronte a un Dante integralmente comunista. Dal punto di vista economico e, facciamo un passo oltre, anche da quello conoscitivo: «Nel cielo del sole i sapienti sono collocati in posizione circolare, non verticistica. La didattica è “seminariale”, è un continuo gioco di scambi. Nel cielo del sole c’è già la Dad» sostiene Sanguineti.

Un paradiso comunista

E facciamo un ulteriore passo avanti nell’eterodossia dantesca: «Il Dio di Dante non è una figura paterna. Nel XXXIII canto del Paradiso si prega la Madonna come vergine madre, “figlia del tuo figlio”. Non c’è Dio padre. L’unica volta in cui Dante presenta Dio padre è nel padre nostro nel Purgatorio. Dante presenta una teologia della storia simile a quella di Gioacchino da Fiore. L’età del padre è finita, siamo nell’età del figlio, si attende l’età dello spirito santo. E questa non è la stessa teologia di Bonifacio VIII. È semmai vicina a posizioni francescane. Nel canto in cui fa l’elogio di Francesco arriva a un linguaggio metaforico estremamente sconvolgente, quando parla delle nozze di Francesco e Madonna povertà, metafore che rinviano ad atti sessuali. C’è tutta una serie di neologismi che rivelano l’erotismo di Dante. Qualcosa che poi si ritrova più avanti. Per esempio nel De Voluptate di Lorenzo Valla c’è un cristianesimo fondato sul piacere. È il suo vero capolavoro, una visione cristiana così eterodossa da mischiarsi con Epicuro».

Un paradiso comunista, esprimibile solo mediante metafore erotiche. È questa la visione dantesca secondo Sanguineti, che ha da pochissimo pubblicato un secondo libro dantesco, in forma di testo teatrale, con Ovadia, Sara Alzetta e Haim Fabrizio Cipriani: In paradiso con Dante e Beatrice (sempre edito da Tempesta). Verrà rappresentato in autunno.

Una teologia diversa

Comprensibile che gli aspetti più “irregolari” di Dante siano stati silenziosamente censurati nei decenni e secoli a venire. Già dalla prima edizione a stampa della Vita Nuova, del 1576, in riferimento a Beatrice la parola «gloriosa» è mutata, di volta in volta, in «graziosa» (II 1), «leggiadra» (XXXII 1), «vaga» (XXXIII 1), «unica» (XXXIX 1). L’espressione, sempre riferita a Beatrice, «è uno de li bellissimi angeli del cielo» è censurata a favore di «è simile a uno de li bellissimi angeli del cielo» (XXVI 2).

Spiega Sanguineti: «La Vita Nuova a noi pare un’opera innocente perché la leggiamo borghesemente come l’inno a un amore spirituale, platonico, e scemenze del genere. In realtà è un libro altamente teologico ed è una teologia molto diversa da quella dominante, è una teologia della liberazione femminile. Beatrice è il primo angelo della storia del Cristianesimo che abbia un nome femminile, i preti del tempo di Dante non lo potevano accettare, esattamente come non lo accettano neanche oggi. Dante era un sovversivo della teologia del suo tempo».

L’unicità dantesca sfugge al mainstream secolare, ma non sfugge, per esempio, a studiose donne che hanno operato nei secoli passati, come Cristina da Pizzano (1364-1430) nata a Venezia, e trasferitasi in Francia. Nel suo Le Livre de la Cité des Dames (1405), l’autrice si propone di celebrare, a nome di tutte le donne, non soltanto A Room of One’s Own (come farà, mezzo millennio dopo, Virginia Woolf), ma un’intera città per sé. Derivando da Dante, per il quale si prodigano «tre donne benedette» (nell’Inferno, canto II, v. 134), l’idea che è alla base stessa dell’opera, vale a dire l’intervento salvifico di una trinità femminile, è costituita da dama Ragione («dame Raison»), Rettitudine («Droitture») e Giustizia («Justice»). Cristina da Pizzano non manca di sottolineare la volgarità delle parolacce nel Roman de la Rose, e di “salvare”, invece, le parolacce dantesche. Perché? Spiega Sanguineti: «Per lei Dante non è misogino. Ovvero ci sono espressioni misogine, ma sono citazioni di altri».

Leggerlo, davvero

Ma la storia della letteratura (ammesso che esista una vera e propria storia della letteratura, se non come astrazione ideologica) procede dritta verso la eliminazione dei passi “pericolosi” in Dante, e verso la “maschilizzazione” dei protagonisti. Esempio riportato da Sanguineti nel libro. Nella Storia della letteratura in nove tomi di Gerolamo Tiraboschi (1772-1782) si citano, oltre a Cristina da Pizzano, Isotta Nogarola (1418-1466) Cassandra Fedele (1465-1558), Laura Cereta (1469-1499), Modesta Pozzo (1555-1592), Margherita Sarrocchi (1560-1617), Isabella Andreini (1562-1604), Lucrezia Marinella (1571-1617), Faustina Maratti Zappi (1679-1745), Luisa Bergalli Gozzi (1703-1779). In quella di De Sanctis le donne sono scomparse. Allo stesso modo, dall’Ottocento in poi, la “normalizzazione” di Dante è completata. Dante è il poeta di cui leggere soprattutto l’Inferno. È il poeta in cui ci sono canti “strutturali” (intellettuali) e canti “poetici”. Racconta Sanguineti: «Di un grande poeta non si può accettare un verso sì e dieci no. Da piccolo ero sbalordito dal fatto che Natalino Sapegno, nel suo commento alla Commedia, dicesse: i primi quattro canti non sono molto poetici, bisogna aspettare il quinto. Il problema è che lo stesso atteggiamento lo si ritrova ancora in tanti colleghi», conclude Sanguineti. Eventuali antidoti? «Leggere Dante, senza più stereotipi scolastici, imposti dalla classe dominante. Non più come risposta bella e pronta, antologicamente fatto a pezzi o per il tormentone dello studio o per crocette dentro un questionario. Ma per il gusto e il piacere di leggerlo. Parola per parola. E, si capisce, pure parolaccia dopo parolaccia. Dal primo verso fino all’ultimo».

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