Sono tornato dalla pausa pranzo per rimettermi a lavorare. Quel giorno non ero in giro per cantieri e fabbriche a fare ispezioni. Come previsto dal decreto legislativo 81/08, il Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, verifico che la gente non rischi la pelle per guadagnarsi da vivere. Ma certe giornate le passo in ufficio, a preparare i dossier, e a ricevere segnalazioni e denunce.

Ho aperto la porta e sono rimasto di sasso. Qualcuno era già seduto di fronte alla mia scrivania. Era un bambino.

«E tu chi sei?», gli ho detto.

«Mi chiamo Mattia».

«Quanti anni hai?»

«Nove».

«E come mai sei solo? Sei scappato da scuola? Da casa?»

«Sono scappato da un romanzo. Non ne potevo più».

«Come hai fatto a entrare? La porta era chiusa a chiave!»

«Noi personaggi godiamo di privilegi speciali rispetto alle persone in carne e ossa», mi ha detto.

«Ma che bambino sei? Come ti esprimi?», gli ho chiesto. «Parli come un libro stampato».

«Infatti. Sono un libro stampato. E nel libro il narratore sono io, ma da adulto».

«Non ci sto capendo niente».

«Guarda, è semplice. Se leggi il romanzo ti sarà tutto chiaro».

«Perché dovrei leggerlo?»

«Perché devo fare una denuncia, e vorrei che tu venissi a fare un’ispezione», ha detto con un tono asciutto.

«Che cos’è successo? Hai subìto dei maltrattamenti?»

«Lo vedrai se lo leggi».

«Perché sei venuto proprio da me?»

«Nessuno mi difende. Ho sentito che tuteli anche i personaggi, non solo le persone».

Il romanzo si intitola C’era una volta adesso. L’ha scritto Massimo Gramellini. Leggendolo ho capito che cosa intendeva Mattia con quel discorso sul narratore adulto: il protagonista è lui, ma in realtà ha una settantina d’anni, perché questa storia la scriverà nel 2080, raccontando la primavera del 2020, quando era un bambino di nove anni e l’Italia si era chiusa in casa per contrastare la pandemia.

Sono andato a fare il mio sopralluogo  nella casa di ringhiera a Milano, dove è ambientato il romanzo. Il piccolo Mattia mi aspettava all’ingresso. Nell’androne ho riconosciuto subito il gabbiotto del portinaio, uno dei tanti personaggi del libro.

«Qui stava il vecchio signor Carlo», dico, «che è innamorato segretamente di tua nonna, ma poi muore». Faccio queste precisazioni per fargli vedere che sono preparato, ma non solo; infatti aggiungo: «È per questo che mi hai chiamato? Perché Carlo era un povero cardiopatico che non è stato curato come si doveva, a causa del virus?»

«Ma no», dice Mattia. «Vieni di sopra».

Abbiamo preso l’ascensore; mi ha accompagnato nell’appartamento in cui si svolge gran parte del romanzo. Riconosco le stanze, i giocattoli di Mattia, il gatto Piccipò.

Il motore della storia è la presenza indesiderata del padre di Mattia, Andrea, detto “Andrei” per il suo carattere irresoluto, da pasticcione irresponsabile. Ha una nuova compagna, si è rifatto una vita a Roma, ma durante la reclusione pandemica della primavera 2020 supplica la moglie di riprenderlo a casa con sé e i figli, a Milano, per dei motivi gravi. La moglie accetta, lo mette a dormire sul divano, con il divieto di muoversi liberamente nelle stanze.

«Non credo sia la presenza di tuo padre, il maltrattamento che hai subìto», dico a Mattia. «Andrea a poco a poco si rivela un bonaccione irresistibile. Riesce perfino a sedurre di nuovo tua madre, che pure non lo sopportava più».

«E anch’io all’inizio lo detesto, ma poi, ovviamente, lo apprezzo e ne rimango conquistato».

«E non va bene?» gli chiedo.

«Be’, ma la causa è posticcia: un pretesto narrativo per giustificare la presenza incongrua di mio padre in casa, in modo da far partire la storia».

«Ma i romanzi sono così. Bisogna pur avviarli con qualche spinta. L’importante sono gli effetti narrativi. Qui l’autore evidentemente voleva fare uno studio dei rapporti famigliari nelle case italiane durante la clausura antivirus, con coppie e figli costretti a subirsi a vicenda».

Mattia mi fa segno di seguirlo. Usciamo sul ballatoio da cui si vede il cortile e le case di ringhiera dei vicini.

«E comunque», proseguo, «tuo padre ha avuto un prestito che non può restituire, sta scappando dai creditori: per questo si rifugia da voi, non si scherza mica».

«Si scherza, si scherza eccome», ribatte lui. «Infatti, alla fine i soldi se li procura nel più facile dei modi».

«E allora?»

«Ci si aspettava un pericolo serio, cravattari feroci, minacce, pestaggi di scagnozzi. Se no perché uno scappa dagli strozzini? Invece tutto si risolve vendendo la sua collezione di fumetti. Comunque, non ti ho chiamato qui per questo», taglia corto.

«E allora per cosa? Il libro l’ho letto; è una commediola scorrevole. Ci sono macchiette carine e simpatiche caricature».

Mentre gli parlo, Mattia si sporge dalla ringhiera, dà un’ultima occhiata al cortile, mi fa segno di rientrare in casa, con un’aria da cospiratore.

«Certo, sei rimasto confinato qui dentro», riprendo a dirgli. «Come tutti, però. Non mi pare che ti abbiano trattato male». Indico le stanze e la sua cameretta.

«E allora come mai io sono ridotto così? Guarda», mi dice, facendosi scuro in volto. Si arrotola una manica della maglia e mi mostra l’avambraccio. La pelle è martoriata da rigonfiamenti scorticati e chiazze bluastre.

Non faccio a tempo a commentare quell’orrore che lui si è già voltato e ha alzato la maglia, per scoprire un fianco e una parte di schiena. Segni di frustate, eritemi, piaghe, croste purulente, lividi.

«Dio mio», mi lascio sfuggire. «Chi ti ha fatto questo?»

«Ma come, non te ne sei accorto?», protesta lui. «Eppure il libro lo hai letto!»

«Perdonami, ma non ricordo delle scene così brutali. Dove succedeva tutto questo? In quali stanze? Ci sono delle cantine? Questa casa ha una segreta sotterranea? Una camera delle torture? A me è sembrato un romanzetto pacioso».

Mattia tira fuori il libro, lo sfoglia e comincia a citare: «Senti qua: “…ogni volta che spalanco la bocca ai ricordi i miei nipoti alzano lo scudo della diffidenza”. Spalanco la bocca ai ricordi. Lo scudo della diffidenza. Ti rendi conto? Con la metafora spiegata dal suo complemento di specificazione. Neanche un principiante scrive così».

«Va be’, cose che sfuggono. È un istant novel, scritto in pochi mesi per raccontare la pandemia in diretta e arrivare in libreria prima di Natale».

«Ma è pieno di cose così. “Mia madre aveva un corpo da statua avvitato a un volto da ragazzina”. Avvitato. La tipica iperbole di chi vuol essere poetico e non ha i mezzi. E poi: “Mia nonna. Lei era il mio salvagente e il mio aquilone”: no comment. “Il mio stomaco: era chiuso con un lucchetto di cui temevo di aver perso la chiave”; sorvoliamo. E senti questa: “Con un sorriso di denti bianchissimi dietro cui si intravedeva il vuoto educato del cuore”. Il vuoto educato del cuore. Dove? Dietro i denti bianchissimi. Questa però le batte tutte: “Come se ogni parola in uscita dalla sua bocca fosse un piede appoggiato sui carboni ardenti”. Non male, eh?, una bocca da cui escono piedi». Mattia si interrompe. Fa una smorfia di dolore.

«Stai bene?»

«Soffro come un cane. Ascolta: “Sguazzava nell’imbarazzo altrui come una papera in un lago”; altra mossa da principiante, usare una metafora e confermarla con una similitudine pertinente. Uh, questa è formidabile: “Ogni volta che la vita non rispondeva come avrei voluto, avevo paura a farle altre domande”. E poi: “La valigia, che a sua volta era pregata di rimanere accucciata sotto il tavolo senza fiatare”: valigia, a cuccia! “Tirai una pallonata addosso al cielo”. Addosso al cielo… Ahrrggghhh!» Questa volta la smorfia di Mattia è spaventevole.

«Che cosa c’è?», gli chiedo.

«Le mie piaghe… Rileggendo si riaprono!» Eppure non riesce a fermarsi, continua a leggere ad alta voce: «E ci sono pure le perle di saggezza: “Le incomprensioni sono ferite lievi che, se trascurate, mandano un affetto in cancrena”. Altri affondi da poeta sprovveduto: “Ero alla ricerca di occhi accoglienti, dietro cui specchiare il mio disagio”. Immagini a effetto: “Le parole che aveva detto alla sua compagna durante la telefonata continuavano a giocare a braccio di ferro nel mio cervello”: parole che giocano a braccio di ferro nel cervello, non so se mi spiego; e “Balbettii che andavano a frantumarsi contro una muraglia di risolini isterici”; ancora la metafora spiegata dal suo complemento di specificazione: il marchio di fabbrica del pivello. Altre perle di saggezza: “Gli unici a rimanere senza sforzo dentro l’istante che stanno vivendo sono i bambini, gli innamorati e gli artisti, che in fondo non sono che bambini innamorati”: da scolpire nel marmo. Similitudini struggenti: “Arriva per tutti il momento in cui ci si affloscia come una bandiera dimenticata dal vento”: dimenticata dal vento. Oppure: “Un sorriso che sapeva di finestre che si riaprono alla fine di un temporale”. E altri detti memorabili, pronti per essere twittati: “Il fascino del puzzle è che assomiglia a noi quando veniamo al mondo: tanti pezzetti sparpagliati da rimettere a posto”. E poi…»

«Basta, per pietà!», l’ho implorato.

«Stanno venendo le piaghe anche a te, eh? Capisci che è qui che abito io? Più che nell’appartamento, mi tocca vivere dentro frasi così! Sono queste parole a seviziarmi. Mi prendono a frustate, mi piagano, mi provocano allergie e ematomi».

«Però, un attimo…», ho obiettato. «Te la devi prendere con te stesso».

«Come sarebbe?», ha detto Mattia.

«Questa storia l’avrai scritta tu, nel 2080, fra sessant’anni. Le parole che ti seviziano sono tue».

«Peggio che peggio! È la violenza più grande che mi ha fatto l’autore: mostrarmi già adesso che la vita non mi insegnerà niente, perché a settant’anni crederò di dire cose sagge e poetiche esprimendomi come un pirla. E tu non te ne sei accorto».

«Forse dovevi rivolgerti a un critico letterario».

«Ma è proprio perché loro non mi difendono che ho chiesto aiuto a un sindacalista. Affinché tu faccia una denuncia alle autorità per sfruttamento minorile, condizioni di lavoro tossiche e avvelenamento ambientale. I critici non li leggono nemmeno, libri come questo; posso capirli: se ne tengono alla larga, fiutano subito che razza di roba c’è dentro. Saranno anche pregiudizi, i loro, ma si rivelano più che fondati. Il fatto grave, però, è che non mi hanno difeso nemmeno i professionisti che se ne sono occupati: in questo caso le scrittrici, le giornaliste culturali; eppure sono persone intelligenti. Senti qua che cos’hanno scritto su questo libro: “Questa è la storia di un padre e di un figlio che si scoprono. E al contempo la storia di tutti noi”: lo dice una scrittrice di romanzi. “Una scrittura libera di esprimersi in tutta la sua leggerezza, piena di aria e piena di luce”: altra romanziera. “Massimo Gramellini è insuperabile nel mostrare quel vuoto d’aria, quella paura di invisibilità che porta un bambino a nascondersi nella fantasia, nell’ironia”, parola di giornalista culturale e scrittrice. “Un autore che nei suoi romanzi riesce a far molto ridere, ma anche a commuovere. Con questa storia riesce a farci ridere più del solito”: un’altra giornalista e scrittrice di romanzi. Ma non si vergognano di nobilitare questa robetta? Eppure sono tutte scrittrici, dovrebbero saper distinguere fra qualità e schifezze».

«Cosa vuoi… Sono giornaliste come lui, o scrittrici che lavorano insieme a lui, o che pubblicano sullo stesso giornale… Sai com’è: fra colleghi… Un favore non si nega a nessuno. Per di più se è uno potente, vicedirettore del Corriere e volto televisivo».

«Ma allora io che cosa devo fare?»

«Bambino mio, leggi qualcosa di meglio, e spera di arrivare al 2080 un po’ meno coglione di come ti ha dipinto il tuo autore, e soprattutto meno vanesio di lui».

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